La “differenza cristiana”

Sir 27,4-7;

Sal 91;

1Cor 15,54-58;

Lc 6,39-45

Sono consapevole che quando coltiviamo la fede come credenti nel Dio di Gesù Cristo, possiamo suscitare stupore e attesa in quegli uomini e in quelle donne che sentono la nostalgia di Dio e guardano a un futuro migliore? Conosco cosa c’è nel mio cuore prima di correggere un fratello che ha sbagliato?

Nelle ultime due domeniche abbiamo potuto ascoltare nel «discorso della pianura» di Luca, quello che è il cuore del Vangelo: prima le beatitudini, poi – domenica scorsa – l’invito ad amare anche i nemici, a fare del bene senza sperare di ricevere il contraccambio. Sono parole lontane dal sentire comune, ma che mirano a creare un modo nuovo di vivere e quindi di rapportarsi con le persone. Oggi Gesù invita a vivere nella concretezza della storia, senza sfuggire le ambiguità e le fragilità. Inizia ponendo una domanda: «Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso?» (Lc 6,39), insinuando forse una sottile volontà di farsi padroni della vita degli altri, di volerli condurre dove noi vogliamo. Mettendo noi stessi al primo posto, dimenticando la Parola di Dio. Ma è solo la fedeltà alla Parola che conta, non le nostre doti personali per annunciarla, non le nostre strutture e le nostre brillanti iniziative! Non dobbiamo mai scordare che siamo «servi» della Parola, non padroni! A questo riguardo mi ha impressionato tempo fa una frase riferita al grande teologo Karl Rahner, che paragonava la Chiesa a «una moltitudine di non credenti» perché si sono certamente «aggregate attorno alla Chiesa le persone, ma le loro coscienze non si sono convertite». Il rischio da evitare è quello di sostituirsi all’unica vera guida, Gesù.

Si passa poi a prendere in considerazione quella che possiamo chiamare la «correzione fraterna». E anche qui Gesù inizia con una domanda: «Come puoi dire al tuo fratello: fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio? mentre tu stesso non vedi la trave ce è nel tuo occhio» (Lc 6,42). Gesù mette in guardia il discepolo dall’usare due pesi e due misure. Prima di diventare arbitri di qualcun altro, è bene scrutare a fondo il proprio cuore per scoprire cosa in esso si annida. Va detto che la correzione fraterna può essere un dovere. «Se un tuo fratello commette una colpa, rimproveralo» (Lc 17,3). Ma è necessario avere un cuore limpido e libero. È necessaria anche l’umiltà se si vuole davvero aiutare un fratello a cancellare il suo errore. Chi ha un cuore buono non userà parole che colpiscono e che feriscono, ma parole che sanno indicare la possibilità della conversione. E già mi pare di sentire da più d’uno l’accusa di buonismo. A costoro però vorrei ricordare le parole di Bonhoeffer, martire nei campi di concentramento nazisti, secondo il quale «la bontà non è una qualità della vita, ma la vita stessa, ed essere buoni significa vivere».

E infine Gesù offre un’altra immagine: «Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d’altronde albero cattivo che produca un frutto buono. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto…» (Lc 6,43–44). L’albero cattivo è quello che produce solo spine, oppure grandi foglie e bei fiori, ma che non porta a maturazione i frutti. In altre parole dobbiamo capire che il discepolo autentico non è quello che sa pregare bene, che magari ostenta la sua presunta fede per catturare qualche favore, ma chi promuove la dignità di ogni persona. È un tema cruciale per questo nostro tempo: parliamo di giustizia, ma intendiamo la «nostra» giustizia, e quindi scordiamo quella «differenza cristiana» che fa di ogni uomo e di ogni donna figli dell’unico Padre e tutti fratelli. La vita dei discepoli di Gesù può suscitare negli uomini stupore e attrattiva se si coltiva la passione per il bene possibile, per l’amore possibile, per la politica possibile e per una terra abitabile.

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