La macchina fotografica e la cinepresa come fionda

All’Auditorium comunale di Lavis, nella rassegna del Nuovo Astra che, per chi non lo sapesse, ha luogo il lunedì e il mercoledì sera, dovrebbe essere arrivato proprio il primo marzo (mentre il settimanale andava in stampa) il film che ha vinto il Leone d’oro a Venezia nel settembre scorso. Si tratta del documentario che Laura Poitras ha dedicato alla fotografa americana Nan Goldin, dal titolo All the Beauty and the Bloodshed che in italiano è stato tradotto Tutta la bellezza e il dolore. Ma Bloodshed, lo capisce anche chi come la sottoscritta non conosce l’inglese, è qualcosa di più del dolore, o quantomeno è un dolore legato a qualcosa di particolare e cruento come, appunto, lo spargimento di sangue. Dentro questo arco estremo che tiene insieme tutta la bellezza e lo spargimento di sangue si pone l’esperienza esistenziale ed artistica di Nan Goldin. Artista che Laura Poitras ci fa conoscere a partire dalla battaglia contro la famiglia Sackler, proprietaria della Purdue Pharma, perché venga riconosciuta la sua responsabilità nella morte di 400.000 persone, solo negli USA, per dipendenza dall’ossicodone, oppioide prodotto e messo in commercio dalla  tessa industria nonostante ne conoscesse gli effetti avversi. Ma dall’impresa di Davide contro Golia di bruciante attualità, perché punta a svelare tutto il male che c’è dietro ai soldi dei ricchi, la  regista arriva al cuore artistico della fotografa che nasce dalla frequentazione da sempre di persone e territori negati e reietti della società, “persone in fuga dall’America” – li definisce Poitras, e prima ancora dal cuore di tenebra familiare che ha portato al suicidio la sorella maggiore di Nan. Emblema, dunque la Goldin, di un femminile che non riesce e non vuole adattarsi a schemi “altri”, che non tengono conto della sua natura e dei suoi bisogni peculiari. È un femminile che rischia di distruggersi dentro il dolore, se non riesce a trovare una forma di espressione del proprio disagio, e di riconoscimento sociale.

All’interesse per il contenuto del documentario si aggiunge però quello dell’autrice, Laura Poitras, che rappresenta un femminile di segno diverso ma altrettanto singolare e potente: una donna che ha scoperto l’arte del documentario cinematografico dopo essersi dedicata alla cucina puntando a diventare ‘chef’ e, dall’inizio del Millennio ha inanellato una serie di opere che smascherano i segreti più indicibili dell’impero nascosto dietro la più grande democrazia del mondo: dall’occupazione militare dell’Iraq (My Country my Country, 2006) al sistema pervasivo di spionaggio informatico e di controllo di massa rivelato prima da Edward Snowden (Citizenfour, 2014) e poi da Julian Assange con Wikileaks (Risk, 2016). Se pensiamo all’accanimento con cui la sedicente Democrazia sta perseguitando i due autori delle rivelazioni e le loro famiglie, possiamo valutare la tempra di cui è fatta questa donna, nata a Boston nel 1964, e la sua statura.

In questo 8 marzo, di tenebre inquiete sempre più lunghe, abitate da paure negate che ci mangiano l’anima, rincuora scoprire il lato amazzone del femminile che impugna l’arte al posto dei missili.

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