La sua inquietudine per Dio e per l’uomo

Al santuario di Oies in val Badia nell’estate 2008 (foto Zotta)

Amante del bello e del buono della vita, Joseph Ratzinger aveva scelto le nostre montagne, apprezzato la nostra musica, visitato con stupore  il Duomo del Concilio. Lo  scoprimmo già da cardinale a Trento nel 2004 in quella conferenza all’ITC (e poi in Cattedrale per il concerto del coro guidato dal fratello) con quei tratti di gentile tenerezza, ben diversi dallo stereotipo del teologo austero e distaccato, con cui lo abbiamo seguito da Papa nelle vacanze estive dell’agosto 2008 nel “buon ritiro” del seminario di Bressanone: applaudiva i bandisti, accarezzava i bambini, scherzava con l’allora rettore del seminario mons. Ivo Muser.

Negli otto anni del pontificato lo abbiamo conosciuto a fondo nella sua poliedrica profondità, tale da prestarsi a giudizi spesso contrastanti da parte dei commentatori, rimasti tutti spiazzati dalle dimissioni nel  2013, un gesto la cui portata e il cui significato forse non stati ancora valutati a sufficienza.

Se c’è un’espressione che riassume forse la testimonianza cristiana di papa Benedetto è quella “santa inquietudine” che egli raccomandava nell’Epifania di dieci anni fa, in uno dei suoi ultimi discorsi da Papa. “Il vescovo – diceva, pensando probabilmente anche a se stesso –  deve soprattutto essere un uomo il cui interesse è rivolto verso Dio, perché solo allora egli si interessa veramente anche degli uomini. Potremmo dirlo anche inversamente: un vescovo dev’essere un uomo a cui gli uomini stanno a cuore, che è toccato dalle vicende degli uomini”.

“Dev’essere un uomo per gli altri – proseguiva il Papa – . Ma può esserlo veramente soltanto se è un uomo conquistato da Dio. Se per lui l’inquietudine verso Dio è diventata un’inquietudine per la sua creatura, l’uomo. Come i Magi d’Oriente, anche un vescovo non dev’essere uno che esercita solamente il suo mestiere e non vuole altro. No, egli dev’essere preso dall’inquietudine di Dio per gli uomini. Deve, per così dire, pensare e sentire insieme con Dio”.

Parole ancora oggi sorprendenti. Forse tutta la vita del docente di teologia bavarese e del “pastore tedesco” (come lo aveva definito lo storico titolo del “Manifesto” è stata attraversata da questa doppia ricerca: approfondita poi per 8 anni da Papa e per ben dieci anni nel silenzio orante di Papa emerito, in quella sede distaccata e insieme vicina all’amico Francesco che era il suo piccolo monastero.

Quando dice del vescovo “preso dall’inquietudine di Dio” Benedetto XVI usava un aggettivo (ancora più efficace di “conquistato”) molto adatto forse anche allo slang dei giovani: uno è “preso via male”, quando appare completamente dedicato ad una causa. L’insistenza del Papa su questo “prendersi cura” del vescovo per l’uomo di oggi – l’inquietudine è ben più della conoscenza – esprime una priorità superiore a mille altre, un dovere da esercitare sempre e comunque in modo collegiale, sinodale si direbbe oggi. Una inquietudine che, nel giorno della sua morte, l’anziano Joseph Ratzinger consegna a tutti i cristiani di un secolo travagliato in cui la sua bianca figura è stata di consolazione e di incoraggiamento.

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