L’altoatesinità come dono

Il nuovo vescovo di Treviso ha avuto un ruolo portante nel recente Sinodo di Bolzano-Bressanone. Porterà quest’esperienza nella nuova diocesi

Un altoatesino nominato a vescovo di Treviso (vedi pag.13). La partenza di don Michele Tomasi, prevista per settembre, sarà una perdita per la Chiesa di Bolzano-Bressanone. Egli ha contribuito molto, negli ultimi anni, al suo cammino di rinnovamento. Prima come parroco, poi come insegnante e rettore del seminario maggiore, infine come vicario generale e vicario episcopale. La diocesi uscita dal Sinodo ha il volto della maturità (con tutte le responsabilità e il coraggio che questo comporta). La strada iniziata dal vescovo Gargitter, proseguita dai successori Egger e Golser, è confluita in un processo, alla guida del vescovo Muser, che fonde e integra una serie di sfide: la ridefinizione delle strutture e dei ruoli ecclesiali, la rifondazione delle comunità, il recupero dei fondamenti del messaggio cristiano, la piena collaborazione di persone di lingua diversa, il dialogo con chi appartiene ad altre tradizioni. In questo don Michele, con la sua laurea in economia e il suo dottorato in teologia, con la sua esperienza di parroco e di professore, con la sua carica umana e la sensibilità biblica, era un elemento portante.

Ora tutto ciò che egli è va in dono alla Chiesa di Treviso e se si tratta di un dono, nulla andrà perso.

L’altoatesinità di don Michele è un davvero un dono per la sua nuova diocesi. Forse non sarà la padronanza delle lingue a essere necessaria al vescovo Michele, ma certamente lo è la consapevolezza che le persone usano parole diverse per dire cose simili e parole simili per dire cose assai diverse.

Siamo nell’epoca delle derive identitarie che si nutrono di simboli e parole, spesso snaturandone il significato profondo. Quando nel 2010 don Michele assunse l’incarico di rettore del seminario, disse così: “Credo che la base di ogni identità dei cristiani sia che essi ricordino di essere discepoli di Cristo, di colui cioè che è morto e risorto per la salvezza di tutti, e che è vivo e realmente presente nella storia degli uomini, anche oggi, con noi. La sua presenza ci mostra che Dio è amore e che apre le nostre vite alla speranza. La vita ha un senso, ha una meta, può diventare buona”. Il cristiano “deve ricordare anche che l’amore infinito che riceve da Dio è fatto per essere speso per e con gli altri, e che egli ha il privilegio grande di essere a servizio della vita, soprattutto dei più deboli e fragili, degli esclusi e dei poveri, dei piccoli. Il cristiano e la comunità cristiana possono e debbono lottare con tutte le forze a difesa della vita umana e della sua dignità in tutti i suoi aspetti e in tutte le sue forme”.

Come don Michele la pensa rispetto alla logica anticristiana del “prima noi” lo ha già fatto intuire nel messaggio rivolto ai suoi futuri diocesani, salutando in modo particolare “chi è a vario titolo e a vario livello a servizio del bene comune e tutti coloro che considerano il bene degli altri come se fosse il proprio”. Considerare “il bene degli altri come se fosse il proprio” è un’espressione che appartiene oggi a un linguaggio “altro”.

Anche “i deboli e i fragili” riappaiono nel messaggio ai trevigiani: “Saluto tutti coloro che vivono ai margini, i piccoli, i poveri, gli esclusi, gli ammalati, coloro che nel proprio corpo e nella propria esperienza completano le sofferenze di Cristo: che il Signore non ci lasci quieti se ci dovessimo dimenticare di voi”. È proprio la vita di un debole che accomuna, storicamente, la Chiesa (“popolo di Dio per le strade della storia”) di Bolzano a quella di Treviso. Il beato Enrico (ca. 1250 – 1315), nato a Bolzano da genitori poveri, lavorò come operaio e boscaiolo, a trent’anni lasciò la città natale per trasferirsi a Treviso, dove trascorse gli ultimi anni della sua esistenza, ridotto in estrema povertà e chiedendo l’elemosina. Uno di quei personaggi che non si vorrebbero vedere in città, un uomo, come disse mons. Muser, “che ci costringe a guardarci allo specchio”.

Don Michele Tomasi non è il primo altoatesino a diventare vescovo di Treviso. Lo precede Josef Grasser (1823-1829), di Glorenza, anch’egli professore e pastore in un’epoca bisognosa di nuove intuizioni.

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