Nel mistero dell’apertura

Is 35,4-7a;

Sal 145(146);

Gc2,1-5;

Mc7,31-37

In questa XXIII domenica ci viene consegnata una vera opera d’arte narrativa del vangelo secondo Marco. Si inizia con un’annotazione geografica. L’evangelista Marco si preoccupa di informarci che Gesù rimane intenzionalmente nella regione pagana del paese (Tiro, Sidone e Decàpoli) per mostrare che oramai la lieta notizia era andata oltre i confini di Israele e del popolo ebraico. Il muro che separava il popolo eletto e i pagani si è finalmente incrinato, ora si annuncia che Dio è Signore di tutti: ebrei e stranieri, uomini e donne, giusti e ingiusti, sani o malati. Gesù non si stanca di annunciare il Vangelo a tutti, in tutti luoghi, in tutte le occasioni, senza indugio, senza repulsione e senza paura perché «la gioia del Vangelo è per tutto il popolo, non può escludere nessuno» (EG 23). Dalla prima lettura tratta dal profeta Isaia alla lettera di Giacomo, che costituisce la seconda lettura, emerge il primato assoluto della Parola di Dio. È la Parola, non solo da riconoscere, ma da incarnare nella propria esistenza, a riaprire i cuori alla speranza agli «smarriti di cuore»; è la Parola a orientare le scelte e il comportamento della comunità di Giacomo e infine, è la Parola a ricreare la dignità piena al sordomuto del Vangelo. Si impone la bellezza di una Parola che, con la sua forza creatrice, penetra nella profondità di ogni persona per aprirla alla vita tutta intera. Il canto di liberazione di Isaia trova pieno compimento nella lieta notizia secondo l’evangelista Marco: «Gli portarono un sordomuto …». All’improvviso compaiono alcune persone anonime che si preoccupano di condurre a Gesù un uomo gravemente colpito nella sua dimensione comunicativa. Quest’ultimo, infatti, poiché «sordo e muto», non può chiedere la guarigione. Ed è bello che non abbia nome perché può avere il volto di ognuno di noi quando ci imprigioniamo nel nostro silenzio o ci chiudiamo nelle nostre paure e come morti ci isoliamo da quanti ci stanno attorno. Quante volte abbiamo desiderato che qualcuno si accorgesse di noi e che ci portasse a Gesù? Oppure, quante volte noi stessi ci siamo accorti del bisogno dell’altro e ci siamo improvvisati strumenti di una Parola che tesse relazioni e ridona alito di vita? Forse, tutti noi abbiamo anche sperimentato quanto sia difficile dar voce a chi non può parlare e far udire chi non vuol sentire? Proprio per questo sempre più sentiamo l’urgenza di ritornare al Vangelo in tutta la sua freschezza per lasciarci toccare dalla sua bellezza che sempre apre nuovi orizzonti e strade fino ad allora impervie. È davvero interessante che questo miracolo avvenga nel contesto della cosiddetta «sezione dei pani» (Mc6,30-8,21) in cui è più volte sottolineata l’ottusità dei discepoli, la loro lentezza di mente e la loro durezza di cuore. Di fronte alle grandi rivelazioni di Gesù i discepoli non comprendono e appaiono ciechi e sordi, sempre più incapaci di vedere e udire la novità del Vangelo. E noi? Dal giorno del nostro battesimo abbiamo incontrato Gesù? Quella sua parola di liberazione e di speranza guarisce gli smarrimenti del nostro cuore? Davvero il Vangelo di questa domenica ci annuncia che il vero miracolo è ritrovare ogni giorno una capacità nuova di ascolto e comprensione del mistero di Gesù per arrivare, almeno alla fine della nostra vita, col dire: «Sì, Gesù lo abbiamo incontrato!».

Sorprendente la reazione di Gesù di fronte al sordomuto: senza perdere tempo e senza troppi discorsi Gesù agisce con una “terapia” efficace. Con grande delicatezza Gesù «prende con sé» il sordomuto e lo porta «in disparte». Forse, a ben pensare, per un incontro vero con Gesù è necessario separarsi dalla folla e allontanarsi dai ragionamenti del «così fan tutti» per ascoltare nella profondità del nostro essere quella Parola che libera e ridona vita.

E le sorprese non terminano. Gesù compie due gesti molto concreti che stabiliscono un contatto fisico con il malato: tocca gli orecchi e la lingua andando alla sorgente di ogni comunicazione. Le mani di Gesù sono mani che benedicono, curano, rialzano e toccano. La salvezza è legata al toccare e la fede non passa solo da testa a testa. Questa umanità di Gesù diventa, ancora una volta, un invito a essere disposti a sporcarci le mani per annunciare un Vangelo che ha il gusto della vita. Quindi Gesù cerca un contatto diretto con il Padre e, levando gli occhi al cielo, emette un sospiro che diventa un’invocazione silenziosa a quel Dio Padre che può donargli la forza di vincere ogni resistenza insita nel corpo dell’infermo. Anche in questo Gesù si rivela capace di farsi uno con l’altro, gemendo con lui per la sua condizione. Solamente dopo questa relazione intima col Padre Gesù pronuncia un comando forte e imperioso: «Effatà», che significa «Apriti!». Prima delle orecchie e della lingua, Gesù parla al cuore di quell’uomo perché vuole ridonare vita in pienezza a quell’infermo. E qui si compie una nuova creazione: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti». La misericordia di Dio apre alla vita, alle relazioni e alla speranza. Così scaturisce il «mistero dell’apertura», secondo l’espressione di sant’Ambrogio, che caratterizza il nostro cammino cristiano e delinea la nostra prima missione battesimale. Aperti alla Parola e dalla Parola siamo chiamati ad aprire nuove vie di comunicazione, di comunione, di speranza e di riconciliazione. Vita cristiana è vita aperta che si dischiude all’incontro con Dio e con quanti incontriamo sul nostro cammino.

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