Non più paradiso

Luogo di divisione e di paradosso, la montagna al centro del programma cinematografico

La montagna al centro. Non solo perché la 63ª edizione del Festival conferma che il filone Montagna è tutt'altro che esaurito: sono stati 451 i film iscritti al Concorso, quest'anno, il numero più alto nella storia della manifestazione trentina. Di questi 114 tra corto e lungometraggi sono stati ammessi e vengono proiettati in 8 giorni di programmazione intensa. Questo dimostra che Trento rimane un punto di riferimento importante nel panorama dei molti altri festival nati nel frattempo a livello internazionale. Lo conferma il pubblico che partecipa anche in orario pomeridiano, nelle fasce delle 15 e delle 17, e che a tratti riempie una sala come il Vittoria. È successo l'altra sera, ad esempio, per la presentazione di Alberi che camminano di Mattia Colombo, per la presenza di Mauro Corona e Erri De Luca, narratore nel film del legame tra le piante e gli uomini così come tra Trentino e Puglia. È un pubblico molto variegato per età, che include giovani e ragazzi.

Più che variegato, come da anni, anche il programma offerto che va dagli “Orizzonti vicini” delle nostre valli, a quelli più esotici e lontani. L’India, quest'anno, è la grande protagonista della sezione “Destinazione…”, ma ritorna anche in altre sezioni del Festival.

A fianco della montagna, luogo dell'arrampicata estrema, su cui “alpinisti” e arrampicatori sportivi, climbers o cultori del bouldering, continuano a cercare in modo estremo un approccio personale alla vita; a fianco della montagna dove sopravvive un mondo arcaico al limite del mitico, come quello dei pastori ciechi d'Armenia (The Sheperd’s Song di Vahram Mkhitaryan – Concorso), o quello albanese dove vige ancora il Kanun (Hakie Haki. Ein leben als Mann di Anabela Angelovska – Concorso, e Prisoneros del Kanun di Roser Corella – Terre Alte), in questa edizione la montagna emerge come luogo del paradosso. Il “fuori dal mondo” che si ritrova al centro del mondo e delle sue tensioni. Luogo di confine, da sempre, diventa il luogo di scontro tra popoli e culture. Tanto atavico quanto attuale.

Siano le montagne che dividono i Turchi dai Curdi, al centro di Come to My Voice di Huseyn Karabey (Turchia 2014 – Concorso), dove donne e capo-villaggi sono costretti a cercare, o finiscono per acquistare dallo stesso esercito, quelle armi che essi dovrebbero nascondere e che devono consegnare per liberare i propri uomini. Oppure le montagne che uniscono Pakistan e Afghanistan in una tradizione tribale di vendette ed alleanze, di una guerra infinita, imposta sulle spalle di donne e spose-bambine (Dukhtar di Afia Nathaniel – Concorso). Ma anche montagne molto più vicine a noi, come le Alpi svizzere nel Cantone dei Grigioni, dove il Governo Cantonale ha deciso di ospitare gli immigrati illegali a cui viene rifiutato lo stato di Rifugiato, un limbo dove sospendere e far decantare un problema epocale come quello delle migrazioni cui non si sa, ma neppure si cerca di dare una risposta umana (Life in Paradise di Roman Vital – Concorso). “Dovrebbero metterci la Banca Mondiale, non noi, in un posto come questo”, si dicono due clandestini africani, sospesi a 1700 metri di altezza, in un panorama idilliaco, in attesa di sapere cosa fare della propria vita, dove l’unica indicazione è quella del ritorno alla propria terra, sempre che si riesca ad ottenere i documenti dalla propria ambasciata. È questa probabilmente l’immagine più attuale e provocatoria della montagna, oggi.

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