Padre Lucas in un’ostile Islanda

Alcuni ricorderanno il Dialogo della Natura e di un islandese nelle Operette morali di Leopardi durante le impegnative due ore e quaranta di “Godland. Nella Terra di Dio, il film in questi giorni nelle sale e per il quale molti critici hanno usato la parola “capolavoro”, forse con troppo entusiasmo.

Nella selvaggia ed ostile Islanda, quando ancora era dominio danese, un giovane pastore luterano parte dalla madrepatria con l’incarico di riuscire a superare ogni avversità e costruire la prima chiesa per una piccola comunità di coloni. È un viaggio ai limiti della sopravvivenza, contro l’impetuosità del fiume, le fauci bollenti del vulcano, la rozzezza di Ragnar, guida islandese che non parla la sua lingua. La fede di padre Lucas è messa a dura prova, ma gli è di conforto la passione per la fotografia, i cui rudimentali strumenti sono, però, un pesante giogo sulle spalle. Le sette fotografie di fine Ottocento che vengono ritrovate sono la prova di questa storia e lo specchio di un dramma che va svelandosi solo sotto finale dopo un lungo viaggio, estenuante a tratti anche per lo spettatore.

Hlynur Pálmason – regista islandese già autore di A White, White Day, con il quale vinse la 37esima edizione del Torino Film Festival e ottenne il Rise Star Award al Festival di Cannes del 2019 – qui raggiunge una notevole maturità stilistica, ma il film trasmette un assunto davvero angosciante.

È possibile credere in un Dio creatore che ha pensato una Terra così ostile all’uomo? Quest’ultimo spesso è sperduto nelle vaste inquadrature come una formica in balia dell’abisso. “Che cos’è l’uomo perché te ne curi?” recita il Salmo 8 e la risposta contraddice il prosieguo dei versi biblici: sarà pure poco meno degli angeli, ma nella terra che in danese e islandese significa “malformata” (la traduzione internazionale è molto fuorviante) per l’umanità non pare esserci posto, anzi: anche gli uomini, in questa landa desolata, si corrompono prima moralmente e poi fisicamente; come icasticamente viene rappresentato dalle ossa che in rapido timelapse si consumano fino a fondersi in humus. È una tragedia dove l’amore non vince sull’odio e il calore degli affetti viene sopraffatto dalla sete di vendetta. I cinefili possono rintracciare echi dei grandi registi Dreyer e Bresson e apprezzare una fotografia eccezionale ed una messa in scena impeccabile, ma la maggior parte del pubblico può cogliere solo un messaggio desolante: la natura è matrigna claustrofobica e i personaggi che in essa cercano la sopravvivenza sono anime in balia di demoni che non si possono vincere.

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