Parrocchia e territorio

Come riformare la parrocchia affinché mantenga il suo ruolo?

Ritorno ancora sul tema della parrocchia e della sua organizzazione perché mi sembra importante per la vita della Chiesa. Credo che non bisogna cancellare l’idea di una parrocchia che si rapporta a una precisa comunità, a un quartiere, a un territorio ben definito. In secondo luogo vorrei segnalare il pericolo di una certa sottovalutazione del “cristiano ordinario”, considerandolo solo come uno che compra (gratis) servizi religiosi. La maggior parte dei battezzati vive la Chiesa in modo “ordinario”, un misto di fede, di relazioni comunitarie e di tradizione. Quale è il tuo punto di vista su questi due aspetti?

Renzo Gubert

Anch’io volentieri colgo l’occasione per approfondire un dibattito che sarebbe bello fosse il più ampio e partecipato possibile. Credo che, per prima cosa, occorra “fotografare” la situazione presente, con lo sforzo di essere oggettivi, benché ognuno non possa prescindere dalla sua sensibilità e dalla sua esperienza concreta.

La Chiesa cattolica, almeno in Europa, presenta grossomodo le stesse problematiche, in primis il calo del numero dei preti e di quello dei fedeli. Ci sono anche territori in controtendenza ma lo scenario di rarefazione della presenza cristiana ha portato a ripensamenti dal punto di vista organizzativo. Di converso, le mutazioni  del mondo del lavoro, i cambiamenti dei costumi, la globalizzazione, la rivoluzione delle comunicazioni e dei mezzi di trasporto hanno modificato sostanzialmente l’aspetto sociale delle nostre comunità. Con notevoli influenze anche sulla trasmissione della fede. Non siamo più ai tempi in cui, almeno tendenzialmente, vi era una coincidenza tra comunità civile e comunità cristiana. Si frequentava la Chiesa per tradizione, perché altrimenti, specie nei piccoli paesi, si veniva additati e marginalizzati. Non mi permetterei mai di dire che la fede sia più genuina adesso rispetto ad allora, ma è pur vero che oggi la scelta di essere cristiani deriva da una forte motivazione e non è di certo sostenuta da un contesto che invece spinge altrove. Di qui, a mio avviso, una certa crisi della parrocchia legata strettamente a una comunità locale, vuoi che essa sia un villaggio di montagna o un quartiere di città.

Anche dal punto di vista ecclesiale ci sono stati grandi cambiamenti. Per fare un solo esempio: nel dopoguerra sono sorti movimenti cattolici – su cui Giovanni Paolo II contava tantissimo – organizzati autonomamente a prescindere dalla struttura diocesana. A volte i loro aderenti non hanno neppure una parrocchia di riferimento. Questa tendenza, di sicuro non incentivata dalla gerarchia, si riscontra pure nella nascita di comunità di cristiani che non condividono il luogo di residenza quanto invece lo “status” sociale (le famiglie con figli piccoli non hanno gli stessi interessi degli anziani o dei single).

Sicuramente la parrocchia “tradizionale”, in cui tutti si riconoscono come appartenenti a una comunità, incarna a pieno la dimensione ecclesiale. L’oratorio è uno degli ultimi luoghi di aggregazione trasversale che incontriamo in una società sempre più disgregata e parcellizzata. Come riformare la parrocchia affinché mantenga il suo ruolo? Per mancanza di preti non è possibile perpetuare il modello antico. Lo sperimentiamo già oggi. Ci sono sacerdoti “volanti” con più di dieci ex parrocchie (o parrocchie a tutti gli effetti) che hanno come seconda canonica l’automobile, in cui trasportano un tabernacolo portatile per risparmiare tempo! In questo senso la parrocchia non è più legata a un solo territorio. Le mega parrocchie sono già una realtà. Come strutturarle al loro interno? Si parla tanto di nuovo protagonismo dei laici, di unità pastorali con più presbiteri che magari vivono insieme (forse andrebbe ripensata pure la figura del parroco celibe, solo, padrone assoluto), ma per ora si è visto poco. Forse bisognerebbe essere più radicali: una comunità cristiana, per essere tale, dovrebbe sostenere da sola, anche a livello economico, le strutture basilari che la compongono. Invece siamo abituati a considerare la Chiesa come lo Stato, cioè un’istituzione lontana che fornisce alcuni servizi, da cui pretendere molto e a cui dare poco.

Arrivo così ai “cristiani ordinari”, magari contrapposti ai “cristiani adulti”. Sono distinzioni sterili. Io noto soltanto che lentamente ma inesorabilmente il numero dei fedeli cala e la loro età avanza, i battesimi tengono ma subiscono un’erosione, i matrimoni religiosi diminuiscono drasticamente, dopo la cresima la maggioranza dei ragazzi se ne va… Su questo bisogna interrogarsi. Non credo che la risposta vada ricercata in uno Stato che per alcuni dovrebbe trasformarsi in un garante o in un tutore della religione civile degli italiani, così come avviene nei paesi islamici. Ripeto ancora: non voglio giudicare chi frequenta la Chiesa per tradizione, per convenzione o per avere un luogo dove tenere i figli il sabato pomeriggio. Oggi però non basta più questo. La crisi attuale richiede ben altro. Richiede una maggiore consapevolezza che la comunità ecclesiale esiste solo grazie al nostro impegno quotidiano. Ha bisogno di senso di responsabilità, anzi di corresponsabilità.

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