“Quante volte devo perdonare?”

Sir 27,30-28,7;

Sal 102;

Rm 14,7-9;

Mt 18,21-35

Si fa un gran parlare oggi delle malattie più o meno gravi, che affliggono l’umanità: da una banale indisposizione, risolvibile con una semplice compressa effervescente, a malattie più serie, prevenibili con opportune vaccinazioni, a disturbi cronici, curabili con farmaci sempre più all’avanguardia, a patologierare, ahimè spesso incurabili, infine, a mali che, nonostante cure energiche e complicati interventi chirurgici, portano alla morte. In genere, siamo tutti molto attenti alla nostra salute fisica e ci basta un leggero malanno, per allarmarci e richiedere al nostro medico di sottoporci ad accertamenti sanitari. Non siamo altrettanto solerti nel curare un altro genere di malattie, quelle dell’anima, non meno gravi dei nostri disturbi fisici.

La prima lettura di questa domenica, tratta dal libro del Siracide, descrive in modo dettagliato i sintomi di un morbo in grado di devastare il nostro cuore: si tratta dell’odio che, se non è diagnosticato e curato in tempo, si annida in noi, ramificandosi e producendo una metastasi dell’anima. L’autore sacro ne parla con particolare lucidità: “Rancore e ira sono cose orribili, e il peccatore le porta dentro”.

A tutti capita di entrare in conflitto con qualcuno e di venire sopraffatti da sentimenti di astio nei suoi riguardi. Talora, basta un battibecco in famiglia per secernere dal nostro cuore un’animosità spesso esagerata che, se non viene prontamente arginata, si trasforma in un’acredine che può compromettereirreparabilmente le nostre relazioni. Finiamo così per ritrovarci intrappolati nelle sabbie mobili di un’ostilità esacerbante.

Odiamo per i più svariati motivi: per un amore finito, per un torto subito, per un’eredità mal spartita, per invidia… Senza quasi accorgercene, ci ammaliamo nell’anima: perdiamo la pace interiore e diventiamo collerici; viene meno l’equilibrio nel giudizioe sparliamo della persona detestata, coprendola di calunnie; siamo così corrosi da questo tarlo interiore che finiamo per augurarle il male. “Un uomo che resta in collera verso un altro uomo, come può chiedere la guarigione al Signore… come può ottenere il perdono di Dio?”, ammonisce il testo sapienziale e conclude affermando: “Ricordati della fine e smetti di odiare…”.

L’odio è la morte annunciata delle energie positive della vita, che vengono imprigionate in un angolo buio della nostra coscienza, dove ogni prospettiva di bene è oscurata dalla nostra ostilità. Questo sentimento distruttivo appare come un sinistro presagio della “seconda morte”, ossia della reale possibilità di perdersi per l’eternità.

Nella seconda lettura san Paolo ci indica come sfuggire a questa spirale di male, ricordandoci che apparteniamo al Signore: “Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore”. Se siamo suoi, verrà a cercarci in quell’abisso di rancore, in cui siamo sprofondati, per lenire le ferite dell’ira e della collera con il balsamo del suo amore: ogni gesto di riconciliazione può avvenire solo “per dono” suo. Sì, il perdono non profuma di umano, ma di divino.

Nel vangelo Pietro si rivolge a Gesù e gli dice: «Signore, se mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?», lasciando intendere che conosce già la risposta:perdonare sette volte significa infattirappacificarsi pienamente.

Gesù gli risponde in modo diretto: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette», sottolineando così quanto sia determinante nella vita di un cristiano perdonare totalmente e sempre.

Il Signore approfondisce il concetto, raccontando la parabola di un servo malvagio che, dopo aver ottenuto dal re per “compassione”il condono di un debito dalle cifre da capogiro, incontra un suo debitore, che gli doveva una somma di gran lunga inferiore e, non potendo costui onorare subito il debito, lo fa gettare in prigione, finendo a sua volta in carcere per ordine del re, informato del fattaccio. Gesù conclude, dicendo: «Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».

C’è un legame indissolubile tra il perdono elargito a piene mani dal Padre e quello che doniamo noi: l’essere persone, che quotidianamente sperimentano la sua infinita misericordia, ci libera dalle catene dell’odio e ci rende compassionevoli nei riguardi di chi ha commesso colpe contro di noi. Chi ci ha fatto del male rimane pur sempre un fratello, al quale siamo chiamati a concedere il perdono, perché siamo entrambi figli di un Padre, che grazie al sacrificio di suo Figlio ci ha riconciliati a sé.

Perdonare di cuore, considerare il nemico un fratello, umanamente ci sembrano cose dell’altro mondo. Allora non stanchiamoci mai d’invocare un supplemento di grazia ogni volta che recitiamo la preghiera del “Padre nostro”, in particolare, quando diciamo: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori».

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