Quei tweet di Eugenio Mich dalla Marmolada… nel 1916

La tragedia della Marmolada ha reso evidente la forza narrativa delle immagini

Di quella sciagura restano le cartoline del prima e le terribili fotografie del dopo, il verde della val di Stava diventato tutto grigio, l’aria tersa di luglio che si riempie di particelle di fluorite che prendono la gola e che si impregnano nella memoria.

Martedì 19 luglio saranno 37 anni. Oggi, nell’epoca delle immagini, pare impossibile che di quella gigantesca onda di fango che spazza via tutto – case, alberghi, strade, falegnamerie – non esista una sola foto. Del resto, anche dei bacini di Prestavel, il gigantesco mostro con i piedi d’argilla, ci sono poche immagini, tutte da lontano: c’è solo una foto aerea, quella che tutti conosciamo perché è la rappresentazione iconica di cosa è capace l’uomo quando ricerca il profitto senza scrupoli, ad ogni costo. Di quel mezzogiorno del 19 luglio 1985 non ci sono ovviamente video, tutto ciò che conosciamo appartiene al dopo, alla distruzione, al dolore per le 268 vittime, tantissime sepolte senza un nome.

La tragedia della Marmolada ha reso evidente la forza narrativa delle immagini, dei video che ci fanno comprendere come la forza della natura riesca ad essere devastante oltre ogni nostra immaginazione. Le connessioni e la messaggistica istantanea fanno in modo che tutti possano sapere tutto e subito. Non c’è solo un effetto emotivo: le immagini consentono ad una notizia di “imporsi” a livello globale (i video del crollo del saracco della Marmolada sono finiti sulle tv di tutto il mondo: dalla Cnn ad Al Jazeera) e la questione del surriscaldamento globale si è manifestata, ancora una volta, come emergenza che non può essere elusa.

Le immagini hanno la capacità di tenere sempre viva la memoria, di far diventare tutti testimoni, di coltivare il ricordo, di alimentare una consapevolezza che non si limita ad un atteggiamento personale, ma si allarga ad una convinzione diffusa: di “opinione pubblica”, per l’appunto. L’assenza di immagini porta invece alla rapida rimozione, all’oblio: non c’è reazione, non si genera quella partecipazione collettiva che muove le coscienze.

Se tutti ricordiamo i gol di Paolo Rossi e l’urlo di Tardelli, è perché quelle immagini le abbiamo viste decine di volte, sono entrate nel nostro vissuto, anche di quelli che all’epoca non erano ancora nati. Potenza della televisione, si diceva, forza di una narrazione che allora ha saputo rompere il cielo plumbeo di anni difficili (il terrorismo, la crisi economica, l’inflazione che erodeva i salari e le pensioni). Forse proprio per questo, quelle immagini rappresentano non solo ricordo, ma anche sollievo per ciò che viviamo oggi.

Chissà che effetto avrebbero avuto, cento anni fa, i messaggi WhatsApp di Eugenio Mich, un segantino di Tesero al fronte con la divisa austroungarica. Aveva la passione di appuntare ogni cosa sul diario: annotazioni precise, nessun commento, cronaca asciutta. Dei tweet ante litteram, come quello che avrebbe inviato dalla Marmolada il 16 dicembre 1916. “La mattina alle sei, la valanga ci porta via la baracca dove dormivamo dentro duecento uomini, i più spazzati via assieme alla baracca”.

Storia terribile quella della guerra tra i ghiacci, per lo più sconosciuta e tornata in questi giorni in primo piano dopo la tragedia dovuta al distacco del saracco. “Il primo quarto d’ora sentivo cigarne una cinquantina e dopo uno alla volta i taceva, i era morti”. Gli archivi militari non hanno mai dato conto del numero esatto delle vittime, non era opportuno, meglio non parlarne. Ma in quel diario (consegnato dai familiari al Museo Storico del Trentino) i numeri ci sono, molto precisi. “Da lì ad un’ora si sono accorti che siamo sotto perché nessuno neva a prendere il caffè. Allora si sentiva che erano sopra che i sbadilava”. E ancora: “Erano altre nove le baracche portate via. In tutto erano sotto 365 uomini e 272 sono rimasti morti e solo 93 sono venuti fuori vivi, ma anche di questi feriti e di gravi”.

Una decina di righe in tutto per raccontare il non raccontabile. Compresa la notizia che “Bepi Barzoto di Cavalese è venuto fuori da solo dopo 33 ore” e l’annotazione finale: “Hanno scavato fino alle 12 e dopo sono scappati tutti: i aveva paura che venga giù un’altra valanga”. Storie dei nostri nonni, storie – senza immagini e senza social – cadute nell’oblio.

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