Ritorno a Tunisi in compagnia di Sigmund

Una scena del film “Un divano a Tunisi”

Esordio alla regia per Manele Labidi Labbé, classe 1982, nata a Parigi da genitori tunisini, studi politici e lavoro in campo economico prima di imboccare la strada della scrittura per cinema e tv. Con il suo primo lungometraggio, Un divano a Tunisi, la regista compie il viaggio inverso a quello che molti giovani tunisini intraprendono o sognano di fare.

Ritorna nella terra d’origine, in un quartiere popolare della capitale, e getta uno sguardo allo stesso tempo disincantato e amoroso sul Paese uscito dalla rivoluzione che 9 anni fa mise fine al regime di Ben Ali.

Lo fa attraverso gli occhi della coetanea Selma che ha lasciato il Paese a 10 anni con i genitori, forse per motivi politici, ed ora è rientrata nella casa paterna contro il parere del genitore che non vede futuro laggiù.

Tanto più per lei che di lavoro fa la psicanalista e vuole esercitare sul tetto di quella casa popolare, in un Paese che afferma di non aver bisogno di simili corbellerie, perché “noi abbiamo Dio”. Però ci mette niente a formarsi la fila sulla terrazza per sedere su quel divano, benché a lei non sia ancora riuscito di ottenere regolare licenza dal ministero della salute e un poliziotto la marchi stretto con ambivalenti intenzioni. L’iman che vive a piano terra è in depressione pesante, abbandonato dalla moglie che si nutriva di telenovele ed espulso dalla moschea perché privo di barba e del taglio sulla fronte che attesti la caratura spirituale.

Il Paese sembra vivere un’analoga crisi, tra forti dichiarazioni di identità dietro cui si cela lo smarrimento e il desiderio di tutt’altro, e un generale sconforto che rischia di ingoiare anche Selma.

Che cosa l’ha riportata davvero lì? La protagonista se lo chiede nella scena più simbolica del film, impiantata con auto e nipote ribelle in mezzo al nulla, di notte, esposta alla minaccia salafita, in un singolare scambio delle parti che la mette a confronto niente po’po’ di meno che con il Capo in persona, Sigmund Freud.

La risposta per lei l’ha data la regista in un’intervista: “A casa mia e in quella di altri figli di emigrati, si aggirava un fantasma… quello di tornare sul posto per fare la nostra parte in questo paese in pieno cambiamento e riparare quello che la generazione dei nostri genitori ha rotto partendo in modo forzoso”.

Se questo ritorno ha la libertà di Selma (una splendida Golshifteh Farahani, artista franco-iraniana che cinematograficamente spazia dai Pirati dei Caraibi a Paterson di Jarmush), se sa unire distanza critica e capacità di ascolto, ironia e sentimenti d’amore, e sa far stare nella stessa stanza il Corano e il ritratto di Freud (con fez), allora c’è speranza. Di là e di qua dal mare.

Intanto speriamo di sentire riparlare presto di Manele Labidi.

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