Scommettiamo sui giovani?

Sono un’insegnante. Apprezzo i giovani di oggi, accoglienti e aperti alle novità: mi permettono di sperare in un futuro migliore. Sono mediamente più scolarizzati e istruiti rispetto ai giovani di trent’anni fa. La preparazione di tanti di loro è approfondita, curata, sempre in via di perfezionamento con tanto di Dottorato, Master, studi compiuti all’estero e quant’altro. Eppure non mi sfuggono le difficoltà che affrontano nel trovare il loro posto e nell’esprimere la molteplicità delle loro competenze e passioni. Tu cosa ne pensi?

Claudia

Sono contento di poter rispondere alla domanda di una docente che, per una volta, non si lamenta del proprio lavoro o dei propri studenti: questo è un segnale sicuramente positivo. I giovani, descritti come apatici senza alcun punto di riferimento, non godono di buona fama specialmente in quest’ultimo periodo. Tu rappresenti uno scenario diverso. Ragazzi vogliosi di imparare che raggiungono alti livelli di istruzione ma che faticano a trovare il loro posto nel mondo, un lavoro qualificato e gratificante. Si trovano improvvisamente incerti e spaesati. Come mai?

Ha destato molta impressione la lettera di addio di un trentenne di Udine che, disperato, si è tolto la vita. Una delle frustrazioni più angoscianti del giovane era quella di sentirsi tradito dalla società in generale, dalla realtà concreta che non riconosce niente a nessuno. Lui era stanco di lottare e di subire. Eppure aveva conoscenze e competenze.

Il mondo “fuori” è molto diverso da quello della scuola e anche dell’Università. Forse il mio ragionamento è controcorrente, ma io ritengo che la scuola non dovrebbe in primo luogo “educare”, quanto piuttosto “insegnare”. Oggi tuttavia, a fronte di famiglie e comunità disgregate, la scuola diventa un luogo di supplenza educativa e non può esimersi da questo ruolo.

Se è così, allora bisogna rendersi conto che la scuola non è in grado di preparare adeguatamente alla vita adulta, non abitua alle difficoltà della realtà esterna. Tu dici che i giovani sono più scolarizzati rispetto a trent’anni fa. Può essere. Diciamo che sono cambiati; hanno mille competenze in più, mille possibilità in più, ma sono molto carenti sui fondamenti. A cominciare dall’aspetto basilare della cultura: saper leggere e scrivere. Non è un caso l’appello dei 600 professori universitari, sgomenti nel vedere come gli studenti non sappiano utilizzare la lingua italiana in maniera appropriata per quel livello di istruzione che ci si aspetterebbe da un universitario. Come la mettiamo allora?

Dobbiamo forse ragionare in maniera diversa. Giustamente le famiglie vogliono dare il meglio ai propri figli. Vogliono offrire loro quelle opportunità che magari non hanno avuto in gioventù. Vedono i loro figli andare abbastanza bene a scuola e quindi li considerano geni. Trionfano all’università, accumulano dottorati e master, rinviano l’ingresso nel mondo del lavoro (e quindi passa anche il tempo per creare una famiglia propria). Sono spinti a illudersi di essere “qualcuno”. Così non è, perché alla fine spesso cosa ottengono? Una porta in faccia. In un colpo sperimentano la difficoltà della vita, il fatto di essere terribilmente uguali agli altri. Comprendono che nessuno fa sconti. Così rimangono disorientati, delusi, infuriati.

Qualcuno vuole dare tutta la colpa alla struttura economica che non offre sbocchi lavorativi, se non precari e poco qualificati; poi ci sono sempre i politici che pensano solo a se stessi; poi c’è l’Europa, c’è la globalizzazione…; Poi ci sono i migranti che ti rubano il lavoro (sappiamo che non è vero, ma molti ci credono ancora).

La scuola dovrebbe educare alla vita. Apprendere è bellissimo. Oggi la scuola può galvanizzare i ragazzi, far credere loro di essere bravissimi, di avere sempre davanti infinite opportunità. Oppure che ci sia sempre qualcuno che ti accoglie e ti aiuta. A scuola puoi sentirti onnipotente. Una visione deleteria per la vita futura. Se non sei bravo, la colpa viene fatta ricadere sull’ambiente circostante. Una volta studiare era un privilegio, far bene un dovere. La mentalità dominante oggi crede che la cosa più importante sia aumentare l’autostima dei ragazzi perché altrimenti c’è la paura che essi si deprimano, che compiano qualche atto autolesionista… Questo non è educare, ma permanere in uno stadio infantile che tutto giustifica, tutto smussa, tutto edulcora. Soprattutto alle medie e alle superiori sarebbe invece necessario essere più severi.

Chi ha tradito allora? Forse manca la capacità di rinunciare. Bisognerebbe insegnare ai ragazzi il valore della rinuncia, dell’umiltà, della fatica, del dovere; nessuno è al centro il mondo: forse la scuola dovrebbe educare a tutto questo.

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