Tom Hanks, un bisbetico domato in in un remake che non convince del tutto

Domanda: perché gli americani devono rifare i film europei che piacciono loro, invece di doppiarli? Una risposta alla questione annosa potrebbe darla oggi Tom Hanks che ha voluto l’ultimo di questi remake – non si è limitato a interpretarlo, lo ha scelto, prodotto e vi ha fatto recitare un figlio nel suo ruolo da giovane. Il film è uscito giovedì scorso nelle nostre sale, perché gli europei, a differenza degli americani, fanno circolare anche i loro remake, doppiati (o sottotitolati). Gli italiani, poi, se devono rifare qualcosa, rifanno i titoli. Così l’originale – si fa per dire – “A Man Called Otto” (Un uomo di nome Otto), diventa “Non così vicino”. L’originale – quello vero – era un film svedese del 2015 uscito con il titolo internazionale “A Man Called Ove” ed era tratto dal romanzo di Fredrik Backman L’uomo che metteva in ordine il mondo (Mondadori). In Italia il film era uscito due anni più tardi come “Mr. Ove” e si era fermato lì.

La storia era quella di un uomo di neanche 60 anni che in seguito alla morte della moglie (ma non solo) si era chiuso in se stesso e nelle sue manie di controllo socio-abitativo, mentre coltivava la fissa di ricongiungersi al più presto alla cara estinta. Ma i tentativi di suicidio di quest’uomo puntiglioso e capace facevano cilecca uno dietro l’altro, tanto più dopo l’arrivo, nella casa di fronte, di una giovane famiglia agli antipodi dei suoi schemi, che infatti li farà saltare e riaprirà il non-vecchio Ove alla vita.

Il film americano cambia solo qualche virgola come fa con il nome del protagonista: la nuova famiglia diventa messicana, il marchio automobilistico del cuore ovviamente “Ford”, la coppia di ex amici cambia il colore della pelle, il ragazzo gay che Ove si trova ad ospitare suo malgrado lascia il posto ad una adolescente transgender… Il resto fila esattamente come da copione svedese, perfino la locandina e lo slogan che la accompagna (Lui vi detesta, voi lo amerete).

La differenza è nell’alleggerimento operato sulla componente di durezza e tristezza esistenziale che ha contribuito a fare del protagonista quello che è a inizio film, e nel potenziamento dell’elemento comico, cosa che rende il film più immediatamente godibile e gratificante. Ma meno autentico dal punto di vista umano, e meno significativo per il processo di trasformazione del protagonista, nonché sul fronte della denuncia sociale.

L’impressione di posticcio che si avverte sotto la vernice del ritorno di Hollywood alla commedia di Frank Capra, è acuita dal ricorso all’iconografia cinematografica utilizzata evidentemente per “fare aria di casa”. Due in particolare i film che vengono tirati esplicitamente in campo: “Gran Torino” di Clint Eastwood e “Up” della Pixar, al punto che sembra di riconoscerne i tratti incarnati nei volti e nei modi degli interpreti. Allora siamo al “Big Mac” del Remake. E a un punto d’arrivo virtuale: in “Polar Express” potevamo riconoscere i tratti di Tom Hanks sotto il disegno del capo-treno, ora riconosciamo il cartone sotto il volto dell’attore, che oltre tutto si chiama Truman (uomo vero) Hanks. Un gioco di specchi in cui perdersi. Ma forse questo ci conduce alla natura vera di questi prodotti. Specchietti per le allodole (a sei giorni dall’uscita, il film è già al 4° posto del Box Office) con cui l’America rimodella a sé il Vecchio Continente. Anche tramite l’industria cinematografica. E il Vecchio Continente si adegua.

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