Il dialetto che dà voce alla vita

Di poesia dialettale ho poca esperienza. Ma ciò non mi impedisce di riconoscerla quando c’è e quando la voce che la esprime è originale. È il caso di Lia Cinà Bezzi e del suo recente libro, numero 27 dei Quaderni de Ciacere en trentin, selezionati, commentati con la cura che gli è propria (e spesso presentati) da Elio Fox.

L’opera si compone di tre momenti autonomi: “Spaventapasseri”, “Te speto ancor”, “O’ sentì ‘l cor dei veci muri”… preceduti, ciascuno, da una riflessione dell’autrice.

Una nuova testimonianza, e dunque a mio parere una conferma, di come il dialetto possa – purtroppo non sempre è così, ma ciò vale anche per la lingua – resistere e rinnovarsi, mescolandosi all’italiano con una funzione espressiva potente, perché ad esso vengono affidati i registri affettivi informali ed emotivi più profondi, facendosi quindi risorsa piuttosto che strumento per uno sterile ripiegamento nostalgico.

In questo senso trovo esemplari alcuni testi della seconda sezione della silloge, che ha come sottotitolo “All’amore perduto”, dove una storia d’amore sofferta da entrambe le parti, e segnata dalla graduale consapevolezza che l’esito felice auspicato non sarà possibile, diventa un piccolo romanzo d’amore in versi. Qui gli umori e i sentimenti, dipanati nella loro altalenanza, bruciano sulla carta e, di riflesso, sulla pelle dei lettori. Qui la resa al fallimento di un percorso a due, al principio sognato con leggerezza (endo ‘l rumor pù grant/l’era el gazèr del còr) e poi smarrito (en sgrisolòm de ortighe/ à stofegà l’amor), si distende pungente e amara in parole che ce ne fanno sentire i brividi e il sapore. La potenza della sinestesia espressa dai termini gazèr e ortiche, ad esempio, non so se sarebbe stata la stessa in lingua italiana.

Così la percezione del dolore e il rimpianto per tutto quello che poteva essere – e si sarebbe voluto che fosse – e poi non è stato, naufragando negli intrichi misteriosi delle diverse nature umane.

Amore naufragato come luogo del rimpianto, al quale si vorrebbe tornare, che rivela la condizione temporale perduta, la nostalgia del tempo vissuto in quel luogo, nel caso specifico in quella dimensione affettiva e progettuale.

Ma di questa e delle altre due sezioni, in particolare la prima, così pregevole e delicata, ha detto egregiamente e diffusamente il prefatore Elio Fox.

Solo una riflessione generale sull’opera, che è anche sulla funzione della memoria e della connessa ricordanza, però, mi preme fare.

Ogni volta che il ritmo dell’esistenza incontra il ritmo della memoria, ogni volta che qualcosa di inatteso, l’impronta di un pensiero, la linea di un oggetto o il suono di una parola chiamano verso la luce, benedetti siano il cuore, il pensiero e la voce pronti ad accoglierli. Perché il dialogo che si dipana tra l’oblio e la memoria altro non è che il dialogo tra l’ombra e la luce, tra il nascosto e il visibile, tra il silenzio e la forma.

E le immagini chiedono di essere accolte e nominate tramite la memoria e l’azione dell’intero corpo. Corpo che fa esperienza del suo potere di rappresentazione e, come Leopardi ha magistralmente espresso, agisce attraverso la ricordanza, movimento del pensiero capace di riconoscere e ospitare un’immagine a noi cara staccatasi dalla lontananza; ma anche intensità di esperienze interiori che coincidono con il linguaggio, con il suo ritmo, con la sua forma.

Nel caso di Lia Cinà Bezzi tali esperienze sono state ospitate nella lingua matria, il dialetto della Vallagarina. Lingua che l’ha aiutata a sottrarre la nostalgia alla sua pulsione regressiva, chiusa, passiva e condurla felicemente verso il linguaggio, la narrazione, così come la sua anima pellegrina (bella la definizione di Elio Fox!) le ha richiesto.

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