Tre croci a Kamenge

“Olga, Bernardetta e Lucia si aggiungono alla già lunga lista dei martiri della Famiglia Saveriana”

Domenica 7 settembre pomeriggio verso le 17 telefonai a Giordana Bertacchini, da qualche settimana nuova direttrice generale delle Missionarie di Maria, le Saveriane, per definire alcune questioni pratiche relative al corso di formazione permanente che si apre tra pochi giorni. Da lei seppi la terribile notizia della morte di due Sorelle saveriane della comunità di Kamenge avvenuta meno di un’ora prima. Una Sorella della comunità, Bernardetta Boggian, era andata all’aeroporto di Bujumbura a incontrare le sue consorelle che rientravano dal loro capitolo generale da poco conclusosi a Parma. Arrivando a Kamenge trovò la casa stranamente chiusa e silenziosa. Accertatasi che le sorelle rimaste a casa non fossero momentaneamente uscite nel quartiere, cercò di entrare da una porta laterale, rimasta aperta, e si trovò davanti uno spettacolo terrificante: a terra, riverse nel sangue con la testa fracassata da una pietra, giacevano Lucia Pulici e, poco più in là, Olga Raschietti, le due sorelle rimaste a casa. Seppi poi dal Parroco che erano state sgozzate. Massacrate da chi? Per quale ragione?

Ero ancora tutto frastornato dalle prime notizie, quando lunedì a colazione, un confratello di passaggio che aveva ascoltato le notizie della radio, mi dice che non erano solo due le vittime, ma tre. Pensai immediatamente a Bernardetta. Mi confermò nel mio sospetto Padre Mario Pulcini, il parroco di Kamenge, che era stato chiamato durante la notte a constatare l’assassinio della Sorella, anch’essa barbaramente trucidata e decapitata, come le altre due. A questo punto il mistero s’infittiva ulteriormente, anche perché l’assassino o gli assassini non avevano rubato nulla di nulla nella casa e non avevano torto un capello alle altre sorelle che avevano passato la notte nella loro casa, tra le quali la quarta Sorella della comunità, una congolese. Perché allora erano state uccise? E uccise in quel modo? E solo loro tre? Persone mitissime, incapaci di torcere un capello a qualcuno, le Sorelle non erano politicamente schierate (in Burundi siamo alla vigilia delle elezioni), non erano tipi da suscitare vendette. Perché allora quella morte così crudele e gratuita, senza ragione cioè, che sembrava tanto una vendetta? Chi poteva aver alzato la mano su quelle persone inermi così amate dalla gente di Kamenge? Da quel momento in me è nato un sospetto di cui non riesco liberarmi, che cioè dietro ci sia un piano di morte che si è compiuto con l’uccisione della terza Sorella, sfuggita al massacro il giorno prima.

Devo dire che la morte di queste tre sorelle mi ha molto colpito: le conoscevo bene tutte e tre, oltre che sorelle in missione, erano amiche di lunga data, che ritrovavo con piacere ogni anno rientrando in Burundi, con le quali volentieri scambiavo impressioni sulla situazione della chiesa e del mondo. C’era con loro una comunanza di ideali, di idee e di sensibilità che rendeva facile la conversazione e la comunione.

Bernardetta Boggian aveva ormai 80 anni ed era una missionaria “di lungo corso”, che aveva lavorato molti anni in Congo dove l’avevo incontrata nel 1972 durante una delle mie prime visite in quella missione. Era una donna mite, intelligente e saggia, prudente e coraggiosa che non temeva di dire chiaramente la sua, ma discreta e normalmente riservata. Era stata eletta, a suo tempo, consigliera generale del suo istituto. Quando intorno agli anni 2000 fu richiesta di trasferirsi in Burundi, cercò di entrare nel nuovo ambiente con tutta se stessa. Era ovvio che apprendere la lingua a settant’anni suonati fu un’impresa impossibile, ma essa non si scoraggiò e si mise a disposizione della pastorale parrocchiale per la formazione della donna e delle ragazze che ricambiavano il suo affetto e la sua competenza con uno straordinario attaccamento. Visitava i quartieri e s’interessava della gente, parlando il suo kishwahili, la lingua del Congo, conosciuta e parlata da molte persone a Kamenge, ma soprattutto la lingua del cuore. Amava mescolarsi con la gente. Raccontava, sorridendo, che un giorno, quando aveva 70 anni, un vecchietto le fece i complimenti con grande semplicità : “Avete un bel coraggio a 80 anni ad andare in giro sotto questo sole: io non saprei farlo …”.

Lucia Pulici era pure un’amica di lunga data, l’avevo incontrata la prima volta nel corso di una visita in Amazzonia, dove faceva l’ostetrica nel Centro di Salute di Abaetetuba. Quanti bambini aveva fatto nascere e quante donne aveva aiutato! Lo ricordava sempre con fierezza e quasi con gratitudine. Dopo una quindicina d’anni le chiesero di rientrare e venne a Roma alla nostra casa generalizia, dove si occupava del buon andamento della cucina e del guardaroba. Lì diventammo amici ed era sempre un piacere poter parlare quando io arrivavo in Burundi in questi anni. Fu destinata alla missione in Congo, dove c’era bisogno di un’ostetrica e lì rimase, credo, fino alla prima guerra del Congo (1995-97). Dopo essere rientrata in Italia, fu inviata in missione in Burundi. La sua salute non era più florida e di fatto qualche tempo fa dovette farsi operare al cuore, ma non volle restare in Italia, come molti le suggerivano per prudenza, decise di spendere ancora tutti i suoi numeri in missione. Curava la chiesa parrocchiale, la sagrestia e soprattutto si preoccupava della salute dei confratelli che, distratti, dimenticavano le medicine o non si accorgevano di essere malati. Me lo ricordava oggi una coppia di laici italiani che la ricordano mentre rincorreva un Padre per dargli le medicine che lui puntualmente dimenticava in refettorio. Lucia era riservata, ma quando parlava si sentiva in lei una passione per la missione che mescolava alla nostalgia per la pastorale latino americana.

Diversa da lei, ma ugualmente molto missionaria era anche Olga Raschietti (83 anni) che aveva cominciato, come le altre in Congo, dove faceva catechismo con competenza e passione. Vi era rimasta molti anni passando attraverso i tempi duri della ribellione di Mulele, della crisi dei mercenari e delle tensioni causate dalla cosiddetta authenticitè congolese del Presidente Mobutu. Non aveva una grande salute e ogni tanto si doveva fermare e rientrare in Italia. Le sue superiore perciò la vollero trattenere. Venne a Roma per fare degli studi… ma non sognava che di rientrare. Dopo un periodo in Italia, fu inviata di nuovo in Burundi. Essa si dichiarava mia amica e mi scriveva spesso le soddisfazioni e le delusioni del suo lavoro, ma soprattutto mi animava a “dare tutto”, come amava dire, tanto che io qualche volta ci scherzavo e le dicevo che non era la mia superiora! Nell’ultima conversazione lo scorso aprile ci siamo quasi bisticciati, perché io le ricordavo che viene un momento in cui bisogna saper ritirarsi per non essere di peso agli altri. So che aveva una grande stima di me, come io di lei, e sono sicuro che avrà perdonato la mia impertinenza.

Dio ha concesso a lei e alle sue sorelle di durare a lungo in missione e di concluderla irrorando con il loro sangue la terra africana. “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici”. Olga, Bernardetta e Lucia si aggiungono alla già lunga lista dei martiri della Famiglia Saveriana e ora, nella casa di Dio, intercederanno per noi e ci otterranno quelle vocazioni che sono necessarie per continuare la loro opera missionaria.

Gabriele Ferrari s.x.

Tavernerio, 8 settembre 2014

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