Nelle fatiche del Sudafrica

SOMMARIO: Parla il vescovo trentino di Witbank, Giuseppe Sandri: “A vent'anni dalla fine dell'apartheid, il cambiamento è radicale. Ma il razzismo non è scomparso”.

«Sono come tutti i bambini. Solo che quando giocano a calcio, dopo venti minuti sono stanchi, non ce la fanno proprio più». Il battesimo di una nipotina vale una toccata e fuga in terra natale. Ma negli occhi, sempre impressi, affiorano i bambini malati di Aids del sanatorio di St. John, a Barbeton: «Amo il mio Trentino, ma ormai il Sudafrica mi ha preso il cuore!», sembra quasi giustificarsi. Nei pochi giorni a Faedo, ai primi di maggio , di Giuseppe Sandri, vescovo comboniano di Witbank, c'è il tempo solo per visitare i parenti stretti e poco altro. Come una scappata, quella sì, al Centro missionario e qui al terzo piano di radio Trentino inBlu. Accompagnato dal nipote Federico, presidente dell'Associazione Sebenzeni («che in lingua Zulu significa lavoriamo insieme», premette il giovane, già due volte in Sudafrica per sostenere l'attività dello zio) monsignor Sandri si mostra a suo agio al microfono. Pacato, come lo stile della missione in cui è attivo dal 1972, con una breve parentesi romana a metà anni Novanta, prima di essere scelto vescovo nel 2010.

Mons. Sandri, le va di riavvolgere la memoria e tornare a pensare alla rivoluzione del 1994, fine dell'apartheid?

Era molto difficile per noi lavorare. Servivano permessi ogni sei mesi per andare nelle zone dei neri. Per rendere un'idea di quotidianità: nei bagni pubblici il gabinetto era solo per i bianchi, non c'era per i neri. Nei negozi c'erano reparti separati. Per noi missionari bianchi in mezzo ai neri era tristissimo, ma una volta che ti conoscevano ho sempre trovato gente così accogliente, così buona, aperta al messaggio evangelico.

E dopo quel voto del 27 aprile '94, festa nazionale?

Furono fenomenali le giornate dopo le elezioni: c'era una paura diffusa in tutto il Sudafrica e anche tra noi missionari per la possibile reazione dei gruppi nazionalistici che manifestavano con armi. Invece prevalse la gioia della gente per Mandela presidente e la paura scomparve.

Oggi, vent’anni dopo?

Il cambiamento è stato radicale, ovviamente. Ma il razzismo non è scomparso, perché il sistema cambia ma il cuore non è facile da cambiare. La situazione è senz'altro migliorata, con un progresso marcato che dà ottimismo. La gente sta molto meglio di una volta ma il 20% della popolazione è molto più povera di prima. Difficile comprenderne le cause. La crisi è stata trasversale, sta pesando il calo di richieste di materie prime di cui il Sudafrica è ricco.

Questa forbice sociale che conseguenze produce?

In Sudafrica l'industria che cresce sempre è quella della sicurezza: guardie private, cancelli speciali, armi. La sanità pubblica è un disastro e gli ospedali privati sono l'unica soluzione per evitare problemi nelle cure. Anche per la scuola stesso problema, con un rischio di squilibrio sociale molto forte. Mi preoccupa anche la crescente violenza sulle donne. E le lotte tra neri sudafricani e neri immigrati che hanno prodotto anche recentemente gravi scontri con molte vittime.

La classe politica attuale?

Nelson Mandela è stato una personalità eccezionale: se non abbiamo avuto guerre civili è merito suo. I suoi discendenti nell'ANC (African National Congress) deludono per il forte tasso di corruzione e nepotismo.

La Chiesa cattolica quale dimensione e quale ruolo si ritaglia?

Nella mia Diocesi siamo al 3% sul totale della popolazione, il 6% in tutto il Sudafrica. C'è stata crescita enorme di chiese locali, costole del cattolicesimo e delle chiese metodiste, ma legate a leaders locali e a gestioni famigliari. Il nostro lavoro è rilanciare il Vangelo di Gesù Cristo che non serve per accontentare la gente, ma che la sfida. E sfida noi a cercare di esser meno di parola ma più di azione, testimoni di amore e di riconciliazione. Per una società più giusta, meno violenta.

Federico, cosa state facendo con Sebenzeni, attiva dal 2010, sostenuta dalla Provincia?

Stiamo finanziando un centro di cura, il St. John's Care Center che accoglie decine di bambini orfani, malati di Aids, con la supervisione della Diocesi dello zio vescovo. Obiettivo: ampliare l'attività sanitaria con una formazione professionale personalizzata.

E a noi esigenti (e spesso incontentabili trentini), cosa dire, infine, vescovo Giuseppe?

Come si fa a lamentarsi? Avete, abbiamo, tutto il meglio. Eppure siamo scontenti. Mi chiedo: Dio ha ancora la centralità?

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