Una Chiesa, lacerata, in trincea

La Chiesa e il movimento cattolico trentino avevano colto subito, già nel ’14, il carattere di “spartiacque storico” che la guerra avrebbe rivestito

“I cattolici e la prima guerra mondiale: quale relazione? Tra esperienze e prospettive” è il titolo del convegno tenutosi sabato 6 giugno all’ombra della Campana dei Caduti di Rovereto organizzato dalla Conferenza Episcopale Italiana, su proposta dell’Ufficio per il lavoro, la giustizia e la pace, e dall’Arcidiocesi di Trento. “Un appuntamento di studio inserito nei programmi per il centenario del conflitto mondiale, con lo scopo di stimolare il dibattito sul ruolo della Chiesa e dei cattolici di fronte alla grande catastrofe, colta nella sua complessità e analizzando le varie posizioni, senza dimenticare certe innegabili contraddizioni”, spiega uno dei relatori, lo storico Maurizio Gentilini, autore di questo contributo di sintesi.

In un recente volume dal titolo “La Chiesa in trincea”, l’autore don Bruno Bignami (studioso di don Primo Mazzolari) muove e sviluppa la propria analisi da una tesi molto suggestiva e ben fondata, più volte toccata e analizzata dai relatori: allo scoppio di quello che sarebbe diventato il primo grande dramma del secolo breve, la Chiesa era già in guerra, con la modernità. Tra le tante “guerre nella guerra”, c’era anche questa…

Se il Papato, con Pio X e con Benedetto XV, non manifestò alcuna accondiscendenza verso l’esaltazione della guerra e l’idolatria della patria, le Chiese nazionali e i cattolici dei diversi paesi europei si trovarono spesso su fronti opposti, legittimando l’intervento in base a presunti principi di sacralità del senso di patria.

Fonte di lacerazione

In realtà la guerra si rivelò un terreno invivibile per la Chiesa, perché fonte di lacerazione interna e negazione profonda del senso di ogni “cattolicità”; fece emergere la denuncia del concetto di nazione come valore assoluto e criterio organizzativo esclusivo della vita degli uomini e dei popoli. Ne conseguì la denuncia degli enormi mali che il conflitto comportava, così come l’appello a cercare le vie della pace, accompagnato da un impegno concreto per lenire sofferenze e dolori. Benedetto XV, nella nota dell’agosto 1917 a tutte le nazioni belligeranti, definì il conflitto una “inutile strage”. Una “delegittimazione religiosa” della guerra e del principio su cui si era basata la teologia della “guerra giusta”, fin dal medioevo.

La posizione elaborata da Benedetto XV rappresenta la base teoretica a cui si rifà l’azione della Chiesa durante tutto il Novecento per quel che riguarda la pace e la guerra. La filosofia dell’imparzialità, accompagnata dalla ricerca del dialogo e del negoziato come via d’uscita dalla logica delle armi, unita all’impegno umanitario, restano un riferimento decisivo per l’orientamento del cattolicesimo lungo tutto il Novecento. Un punto di partenza decisivo, tra guerra e pace, anche per i pontificati successivi, fino a Francesco.

Sulla frontiera

Per una chiesa locale con le caratteristiche, la storia, la collocazione geografica, il contesto politico-istituzionale della diocesi di Trento, le posizioni della Chiesa romana rappresentarono un sicuro punto di riferimento, ma dovette spesso interpretarle e applicarle in modi e forme del tutto singolari. In virtù della sua particolare condizione “di frontiera”, la Chiesa e il movimento cattolico trentino avevano colto subito, già nel ’14, il carattere di “spartiacque storico” che la guerra avrebbe rivestito. La complessità della situazione era amplificata dalle condizioni di una terra di confine, contesa da diversi schieramenti e disegni ideologici, che era stata già considerata merce di scambio nella dialettica tra due stati alleati come Italia e Austria.

Dopo l’attentato di Sarajevo, nell’agosto 1914, la guerra fu accolta con adesione pressoché totale, e perfino entusiasta, nei territori della monarchia asburgica. Le autorità ecclesiastiche non fecero eccezione, benedicendo lo sforzo bellico. Il vescovo di Trento Celestino Endrici si tenne invece lontano fin dall’inizio da tale patriottismo, rimproverando anzi i colleghi austriaci di un appiattimento sulle posizioni delle autorità civili che sapeva ancora di «giuseppinismo». Il quotidiano “Il Trentino”, diretto da Alcide Degasperi titolò l’articolo di apertura del 6 agosto “L’ora di Dio”, e seguì con realismo e trepidazione gli sviluppi del conflitto. La speranza che la situazione non precipitasse e gli sforzi diplomatici per evitare il peggio durarono fino al 24 maggio 1915, prima contando sulla neutralità dell’Italia e poi sulla prospettiva di una guerra breve.

Il popolo scomparso

La vera prova alla quale la Chiesa trentina e il clero furono sottoposti nel frangente bellico fu l’epopea dell’esodo dei civili dalle zone di combattimento. I 70.000 civili trasferiti in Austria e in Boemia, il “popolo scomparso”, venne accompagnato e assistito da 234 sacerdoti diocesani, 40 religiosi, 80 religiose, fino alla fine delle ostilità.

Nel novembre 1918 cominciava una nuova storia per il Trentino, a cominciare dalla ricostruzione morale e materiale di un territorio dilaniato da quattro anni di battaglie e dalle incognite di un trapasso istituzionale i cui effetti si sarebbero riverberati per molto tempo sulla società trentina. Anche qui il ruolo della Chiesa e dei suoi pastori sarebbe stato quello di accompagnare e tutelare il proprio popolo, predicando e praticando, dopo il trionfo delle divisioni, la pace e la riconciliazione.

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