Il fronte sulle cime, “guerra primordiale”

Diego Leoni racconta il primo conflitto mondiale sottolineando il duro contesto ambientale e la sofferenza degli uomini

Nel prendere in mano e leggere, pagina dopo pagina, “La guerra verticale”, ponderosa fatica dello storico roveretano Diego Leoni, viene da riflettere su un paio di fattori che ne intessono la trama, corposa e articolata, trasmessi quasi come un mantra.

Il primo riguarda il nemico. Che fosse austriaco per gli uni o italiano per gli altri (e certo contò molto), quello vero, ineludibile, sempre presente e costante, senza tregua, fu la montagna stessa. Sconosciuta in molti casi, impervia, pericolosa, “gelata”, fredda, “tormentata”, capace di bloccare i rifornimenti tanto da affamare, e in molti casi far crepare, i soldati che ne vivevano gli anfratti e le cime.

La seconda considerazione che emerge con forza dal volume è che quella Prima guerra mondiale combattuta sul fronte italo austriaco, dall’Adamello alla Marmolada alle Dolomiti orientali, fu senz’altro la più tecnologica fino ad allora mai svoltasi in quanto ad armamentario bellico impiegato ma anche la più primordiale. Perché le centinaia di migliaia di uomini costretti ad affrontarsi lo fecero in condizioni estreme, inumane, incrodati, nascosti nelle caverne di roccia o ghiaccio come talpe, seppelliti a migliaia dalle valanghe, vestiti di “stracci” di fronte a temperature siberiane, ricorrendo a tutti i mezzi pur di sopravvivere, anche bevendosi la propria urina per calmare l’arsura, in mezzo al tanfo delle cataste di morti. Un paesaggio stravolto e contaminato, un inferno di cui erano specchio fedele le “immagini” dei soldati che scendevano nelle retrovie dopo settimane di prima linea, ridotti a fantasmi. Leoni, che ha scritto su quest’evento fin dai tempi della rivista “Materiali di lavoro”, fa parte di quel gruppo di storici roveretani (Rasera, Antonelli, Zadra, Fait e altri) che ha dato un impulso significativo, anche a livello nazionale, nello sviscerare quel periodo che sconvolse anche il Trentino servendosi delle fonti, dei diari, delle memorie, delle foto di soldati e civili.

“La guerra verticale. Uomini, animali e macchine sul fronte di montagna 1915-1918” (425 pagine più un altro centinaio di note), pubblicato nella prestigiosa Biblioteca storica dell’Einaudi, è un po’ il coronamento di qualche decennio di ricerca. “Né prima, né dopo, sono state combattute guerre simili. La guerra di montagna è la Prima guerra mondiale. Un unicum nella storia dei conflitti di sempre in tutto il mondo”, riflette l’autore.

Leoni, uno studio poderoso, per dire che cosa?

Un lavoro scritto soprattutto per interpretare diversamente ciò che era stato detto prima. Partendo da una considerazione e cioè che sulla Grande Guerra in montagna è stato detto, narrato e scritto tantissimo.

Quindi?

Quindi non c’era una visione complessiva che coinvolgesse tutti i soggetti che l’hanno combattuta e vissuta da protagonisti o da vittime. Dove ufficiali e soldati hanno interagito con i civili ma anche con l’ambiente naturale e utilizzando un’enorme tecnologia. C’è poi il tentativo di scrostarla di tutte quelle patine di retorica e di mitologia che fin da subito ne hanno caratterizzato il racconto.

Prima dello scoppio del conflitto cosa rappresentava la montagna e, in seguito, cosa è diventata?

Prima della guerra il mondo alpino era chiuso in sé stesso, caratterizzato da regole rigide e, nello stesso tempo, aperto, dove i confini politici esistevano ma anche no, bypassati facilmente. La guerra sovverte radicalmente questo tipo di organizzazione, la trasforma, erige confini di filo spinato e trincee.

Italiani ed austriaci erano preparati ad affrontare questo ambiente?

Assolutamente no. Nonostante la guerra di montagna fosse stata molto studiata e praticata, soprattutto dagli austriaci, nei Balcani e sui Carpazi, fino alla vigilia nessuno se la immaginava come poi sarebbe stata. Soprattutto lo Stato maggiore italiano la pensa come una guerra di “scorrimento”. Una volata, come scrisse Cesare Battisti, che fosse verso le piane danubiane o quella padana. Non fu così.

Lei si sofferma a lungo anche su animali e macchine. Perché?

Arrivano in montagna eserciti di grandi dimensioni. Per fare solo un esempio, nel maggio-giugno 1916, durante la Strafexpedition, la I Armata italiana schiera, dal Garda al Brenta, traportino in quota materiali, camion e teleferiche che trasportino quel che serve per sopravvivere, ancor di più che per battere l’avversario. Gli eserciti si configurano come sistemi complessi che si autoregolano. Comprese le migliaia di lavoratori civili e i prigionieri impiegati per realizzare mulattiere, strade, teleferiche e tanto altro. Il paesaggio del dopoguerra risulterà irriconoscibile rispetto a prima. Fu la guerra più roboante, più tecnologica, più costosa e più inutile di tutto il primo conflitto mondiale.

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