Turchia, tra incudine e martello

L’offensiva della Turchia nel nord della Siria e dell’Iraq, rivolta sia contro lo Stato islamico sia contro le basi delle formazioni armate del Partito curdo dei lavoratori (Pkk), ha l’appoggio della Nato. Il vertice dell’Alleanza atlantica, convocato da Ankara, ha legittimato le operazioni militari in corso da alcuni giorni e rivolte contro le posizioni del Pkk nell’Iraq settentrionale (nei pressi di Erbil e di Dohuk) e contro le Unità di protezione del popolo curdo (Ypg) a Zur Maghar, nella provincia di Aleppo, in Siria. Anche i miliziani del cosiddetto Stato Islamico (Is) – contro cui i curdi, partner degli Usa sul terreno, combattono da mesi – sono stati presi di mira dai raid. Ma il presidente Erdogan guarda anche al fronte interno: al parlamento ha chiesto di revocare l’immunità ai deputati “legati al terrorismo” (l’obiettivo sarebbe la formazione curda Partito democratico del popolo – Hdp).

Secondo un piano di battaglia elaborato dalle diplomazie di Ankara e di Washington, l’Is dovrebbe essere scacciato da una fascia di 110 chilometri lungo il confine turco-siriano, in modo da creare una zona cuscinetto.

Ma a fare le spese del pugno di ferro contro il terrorismo è anche la libertà di espressione nel Paese. Nelle ore immediatamente successive all’attentato di Suruc in cui hanno perso la vita 32 giovani per mano di un kamikaze, il governo turco ha bloccato l’accesso a Twitter.

"Ogni giorno la libertà di stampa riceve un colpo direttamente o indirettamente da questo governo", afferma all’agenzia Sir Mustafa Edib Yılmaz, editorialista e responsabile della redazione esteri di “Zaman”, il quotidiano più letto in Turchia, vittima lo scorso anno di una vasta operazione di polizia che ha portato all’arresto di vari esponenti politici e giornalisti tra cui il direttore del giornale. Le reti sociali spaventano le autorità turche, spiega Yilma in uno dei passaggi dell’intervista raccolta da Maria Chiara Biagioni. “Le autorità controllano quasi tutti i media tradizionali, ma non riescono a controllare i social media: l’unico modo per farlo, è chiudere i servizi. Sembra che abbiano molto da nascondere alla gente”. Ma, osserva Yılmaz, “la lotta al terrorismo non può essere fatta attraverso la censura. Il governo deve mettere più impegno in quello che dovrebbe realmente fare per combattere la violenza”. I giornalisti turchi sono molto preoccupati per la libertà di stampa nel loro Paese e guardano alla comunità internazionale e ai giornalisti europei perché aiutino la Turchia a incamminarsi verso una vera democrazia: “La solidarietà professionale potrebbe funzionare. È sempre una buona idea avere consapevolezza di quanto avviene in Turchia e fare pressione sui propri governi perché vengano rispettati i principi stessi che le autorità del governo turco dicono di sostenere. La critica politica interna, quando è resa pubblica, a volte è controproducente. Per questo è preferibile agire dietro le quinte, premendo piuttosto sui governi europei, l’Unione europea e la comunità internazionale”, conclude Yılmaz.

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