Una riforma a due facce

Il dibattito si è riacceso, con la proposta di ripensare anche la collocazione delle casse rurali in ambito regionale

Stando alle reazioni, la riforma del credito cooperativo presenta due facce: una buona, l'altra odiosa. L'impianto, sostanzialmente condiviso, è la faccia buona. Visto che la Banca Centrale Europea (BCE) vuole vigilare sul credito cooperativo attraverso pochi interlocutori, meglio se uno solo, il decreto legge del 14 febbraio prevede che le casse rurali/Banche di credito cooperativo (BCC) si riuniscano in un «gruppo bancario cooperativo», con a capo una società per azioni dotata di un patrimonio minimo di un miliardo.

La capogruppo, partecipata in maggioranza dalle stesse banche aderenti (quindi a matrice in prevalenza cooperativa), risponderà dell'equilibrio del sistema e, in cambio, lo gestirà in autonomia. Alla medesima spetterà perciò dettare strategie e obiettivi, controllare i requisiti prudenziali delle banche aderenti, anche applicando sanzioni, garantire la tenuta dell’insieme e, nei casi di crisi, gli interventi di sostegno.

Le casse rurali aderenti – questo è il bello – non saranno delle filiali, ma società autonome (come oggi), legate alla capogruppo da un «contratto di coesione», che le lascerà libere in base al livello di rischio, cioè tanto meno le vincolerà nelle strategie e nella gestione quanto più in salute. In questo modo, da un lato, sarà salvaguardata l'unitarietà del gruppo, con tutti i benefici di qualità e di efficienza propri di una grande aggregazione; dall'altro, le casse rurali aderenti potranno continuare, pur in proporzione alla rischiosità, a coltivare la loro missione mutualistica e il legame con il territorio.

La faccia brutta della riforma è l’ormai famigerata «clausola d'uscita», che consente alle BCC con un patrimonio superiore a 200 milioni di trasformarsi in società per azioni, versando un'imposta del 20 per cento delle riserve. Nella società per azioni il patrimonio non è indivisibile, come lo è nelle cooperative: perciò questa clausola consentirà ai soci attuali di appropriarsi di risorse, pur al netto dell'imposta, accumulate di generazione in generazione per finalità solidali. Questa possibilità è stata presa come una pugnalata alla formula cooperativa, ma anche al nascente gruppo, dal quale le realtà più grosse (e solide) potranno sfilarsi, o minacciare di farlo per imporsi. C'è stata perciò una levata di scudi e una corale richiesta di modifica. Per una riforma tanto attesa non è un bell’inizio.

Il dibattito si è perciò riacceso, con la proposta di ripensare anche la collocazione delle nostre casse rurali in ambito regionale, anziché nazionale (il decreto effettivamente non impone un «unico» gruppo), sulla quale non si coglie tuttavia nel movimento grande entusiasmo, né a Trento né a Bolzano. Intuibili i problemi di patrimonio minimo, di bacino d’utenza dei servizi, di compatibilità. La Banca d'Italia, poi, da anni denuncia «una frammentarietà delle strutture di offerta, con iniziative talvolta non correttamente inquadrate in una prospettiva strategica unitaria», mentre «nei grandi conglomerati bancari, la specializzazione delle società del gruppo nella progettazione e nell’offerta di prodotti e di servizi… è volta a conseguire economie di scala e ad assicurare, nel contempo, qualità e innovazione» (Fabrizio Saccomanni, ex direttore generale di Bankitalia, dicembre 2007).

In attesa di sviluppi, questa riforma ci consegna comunque un modello innovativo di alleanza cooperativa, capace di coniugare l’effetto aggregante del gruppo con l’autonomia «meritata» delle banche territoriali, a beneficio della mutualità. Un modello, sembra, nato proprio da una proposta trentina: questa sì è una buona partenza!

Paolo Spagni

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