“Dai Karamojong ho imparato l’accoglienza”

Bellissima testimonianza del vescovo Giuseppe Filippi martedì sera, 30 gennaio, presso il Centro missionario di Trento. Ha parlato – coinvolgendo un pubblico numeroso – della sua esperienza pastorale e della sua vita tra il popolo Karamojong, in Uganda. Organizzato dall’Associazione dom Franco, da Assfron e dalla Diocesi di Trento, l’incontro è stata una rara conversazione pubblica di quella che è la vita vissuta di questo vescovo che in questi ultimi sette anni presiede la diocesi di Kotido, ma in passato è stato per tanti anni missionario comboniano in Africa. Mons. Filippi non ha parlato tanto dei progetti di sviluppo, delle cose da fare – pur molte e importanti -, ma si è soffermato sulla gente, sulle persone, sulla loro storia, sulla loro evoluzione culturale ancora prima che sociale. Per l’africano l’esperienza vale più della riflessione – ha esordito – e l’incontro con gli altri ha un’immediatezza che non necessita di altro se non l’importanza dell’incontro stesso. In tal senso per la persona africana in genere quello che prova, diventa vita. Dell’Africa si raccontano eventi, fatti, storie, ma l’africano non sa raccontarsi, non sa dirsi: sa viversi. Chi viene in Africa, dice Filippi, se ne ritorna con un senso di serenità e di gioia – pur nel mezzo di condizioni per niente facili. Sono sentimenti che gli derivano dal modo in cui vive la gente in Africa. La lamentazione è bandita, ci si aiuta, si sorride, poi si danza, si esprime un gusto per la vita che forse da noi s’è smarrito. “A stare con loro si impara molto”. Un’Africa che è perenne migrazione di popoli che si spostano e si sono da sempre spostati, di territorio in territorio, di regione in regione. Oggi, ad esempio, la grave crisi del Sud Sudan, con una guerra che va contro la gente dei villaggi, impone di andarsene e trovare rifugio altrove. E in Uganda, in uno spicchio di un’area grande come la nostra regione, si sono riversate un milione e mezzo di persone scappate dalla guerra. Sono state accolte (l’ospite è sacro) e prima ancora di poter godere di un aiuto internazionale è stata data loro una porzione di terra da coltivare, degli arnesi per dissodarla e lavorarla; pian piano hanno sostituito i teli che li riparavano con capanne di fango, ma ben più “confortevoli”.

Mons. Filippi ha evidenziato come tutto nella società dei Karamojong si fonda sulla relazione. Relazione con l’ambiente, prima di tutto, che spesso è duro, difficile, quasi impossibile. Eppure vi si adattano ricavando il meglio. I torrenti sono tutti senz’acqua eppure essi sanno scovarla sotto, dove c’è. E’ una relazione con il territorio frutto dell’esperienza del viverlo. Relazione anche con Dio, che per loro è tutto ciò che è misterioso, che si rifà all’incognito, al trascendente. E’ richiesta la benevolenza degli spiriti, ecco, allora, che si spiegano i sacrifici, le offerte, il comportamento delle persone, il sussiego per gli antenati e le tradizioni. Ed è relazione, principalmente, tra di loro. Il vestire delle donne, gli ornamenti e la bellezza che le avvolge rimandano a un sistema di relazioni in cui anche la colpa trova modo di essere espiata e la benedizione – il dire bene dell’altro – è fulcro essenziale del vivere comunitario. Il tribalismo, la fuga verso Kampala, l’immensa bolgia della spersonalizzazione del singolo, le tematiche dei disabili e dei deboli sono state trattate con grande sensibilità da chi con l’Africa ha stabilito una sintonia profonda lunga un’intera vita. Rilevando discrepanze e aporie che pure esistono.

Anche il vescovo Lauro, in conclusione – dopo numerosi interventi di persone coinvolte nel volontariato – ha rimarcato il valore della relazione che vale lì e forse ancora di più nell’anonimato e nella dispersione in Trentino. Ha ribadito che un futuro per la Chiesa trentina – come per quella ugandese – lo si può trovare non tanto nelle strutture, ma nelle persone che si innamorano del messaggio di Gesù di Nazareth. Lo vivono e lo mettono in pratica. Più mistici e meno funzionari del sacro. E mons. Filippi: “A noi tocca fare la nostra parte meglio che possiamo”.

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