Un governo in confusione

Non c’è solo la pur spinosissima questione dei migranti a mettere alla prova la capacità di tenuta di questa maggioranza

Conte sosteneva di essere uscito bene dalla prova europea: niente procedura di infrazione (per ora) e promessa di un posto di rilievo nella Commissione per un italiano (vedremo se va in porto). Per continuare su questa strada sarebbe comunque necessario mostrare che in Italia c’è un governo e non un gruppetto di capi partito e di personaggi in cerca di visibilità sui media che occasionalmente fingono di far parte dello stesso esecutivo.

Non c’è solo la pur spinosissima questione dei migranti a mettere alla prova la capacità di tenuta di questa maggioranza: nell’assenza di una linea politica responsabile e credibile, che, vogliamo dirlo, dovrebbe essere garantita dal premier, si lascia montare un teatrino che si divide fra truci e anime belle, gli uni e gli altri incapaci di comprendere che stanno maneggiando esplosivo al cui innesco penseranno tutti i nostri nemici.

C’è però un tema più rilevante, proprio perché privo di quei risvolti di drammatizzazione che riguarda il tema migranti: è la questione delle autonomie regionali differenziate. Su questo delicatissimo tema si sta consumando lo sperpero di un tentativo coraggioso di riforma del sistema amministrativo italiano che, partito dall’inserzione delle regioni nella costituzione repubblicana, era approdato alle speranze di cambiamento connesse al varo delle regioni a statuto ordinario negli anni Settanta. Certo è oggi impossibile sostenere che gli entusiasmi regionalistici degli ultimi decenni del XX secolo abbiano prodotto un panorama virtuoso, come è altrettanto impossibile non vedere che le modifiche costituzionali da cui dipendono le richieste odierne sono state ottenute sotto la minaccia della prima fase del secessionismo leghista.

Comunque sia, di tutto oggi si discute, meno che di un razionale sfruttamento delle potenzialità di risorse che sono presenti in alcune regioni in modo che queste possano costituire uno stimolo ed un motore per lo sviluppo dell’intero paese. La situazione del dibattito in corso è quantomeno quella di un teatro dell’assurdo. Da una parte quelli che vorrebbero di fatto trasformare il sistema italiano in uno stato federale (pasticciato), con il non piccolo problema che le sue componenti sarebbero staterelli di dimensioni troppo ridotte per poter gestire la totalità dei compiti pubblici senza connessione di fatto col contesto nazionale. Dalla parte opposta quelli che si oppongono in nome del principio per cui non si possono creare parti d’Italia di serie A, con altre di serie B, per non dire C: principio giustissimo in astratto, non fosse che in concreto il paese è già ridotto così (basta pensare alla questione della sanità).

Ci si aggiunga che nel scontro in corso in realtà tutti tifano per interessi molto, ma molto di bottega: i vertici delle regioni interessate per garantire ai loro governi in carica riserve di costruzione del consenso con il controllo di tanti settori di spesa pubblica e di assunzioni; la burocrazia centrale romana per non perdere poteri con i relativi ambiti di controllo su un certo numero di corporazioni. Basterebbe vedere la battaglia sulle competenze per la scuola per capirlo: da un lato la pretesa di avere “reclutamenti regionali” degli insegnanti con il mito delle culture pseudo-locali; dall’altro i sindacati (e un po’ di vertici ministeriali) che si oppongono perché perdono il controllo (lobbistico) dei meccanismi di assunzione. Di un problema vero, cioè dello squilibrio di provenienze regionali degli insegnati con i conseguenti problemi di continue richieste di spostamento, di scarsa integrazione nei contesti sociali in cui operano, e via elencando, invece non ci si occupa. Ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi.

Il risultato è che tutto si riduce ad una zuffa fra fan dell’una e dell’altra soluzione, mirata solo ad ottenere un dividendo elettorale da qualcuna delle corporazioni in campo. Naturalmente non ci si limita alla questione delle autonomie differenziate, perché per i partner di governo ogni occasione è buona per scambiarsi qualche dispetto. Il governo però sta in piedi, perché, come si usa dire, la situazione è drammatica, ma non è seria. Quasi tutti scommettono che la scadenza del 20 luglio per mandarci a settembre alle urne sarà evitata. Probabile, perché nella confusione non conviene a nessuno andare al voto e per di più dopo una campagna elettorale in estate, ma non ci sentiremmo di dire che è del tutto sicuro: a furia di scherzare col fuoco cresce il rischio di bruciarsi.

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