Natura e cultura: le voci dei piccoli popoli

Una radio comunitaria a servizio delle popolazioni dei Monti Nuba, al confine tra Sudan e Sud Sudan – foto Agensir

La pandemia in atto ha messo in luce, se mai ce ne fosse stato bisogno di acclararlo, l’eccessiva antropizzazione dell’ambiente e del territorio da parte degli esseri umani, specie da parte della cosiddetta civiltà occidentale – di cui facciamo parte – che ha disegnato il concetto stesso di sviluppo e modernizzazione negli ultimi secoli, rendendolo valido e attuale, dunque egemonico, sul globo terracqueo.

I piccoli popoli che tuttora si ribellano a questa visione del mondo vengono tacciati di arretratezza e primitivismo. Accusa che ha da sempre sostenuto ogni tipo di colonialismo. Dobbiamo invece essere consapevoli che altre culture, oggi minoritarie, hanno impostato da sempre un altro modo di accostarsi al creato. Più empatico, rispettoso, osmotico. Su questi aspetti sono rivolte oggi, ad esempio, le lotte dei popoli indigeni sudamericani che si battono contro la devastazione cui vengono sottoposti i territori da loro abitati dai primordi della storia in nome del cosiddetto estrattivismo. Ricordo come il salesiano padre Silvio Broseghini era fortemente affascinato dalle comunità presso cui aveva scelto di vivere la sua missione, gli Achuar, indigeni amazzonici dell’Ecuador del gruppo Jivaro, e come il loro animismo fosse consistente in un profondo rapporto con la natura, nella configurazione delle creature organiche (animali, piante) e inorganiche (minerali, acque, ecc.).

Il popolo Nuba vive in zone montagnose ed impervie, e negli ultimi decenni si è trovato stretto tra l’immane genocidio del Darfur (Sudan), le tensioni del Kenya e la fragile tregua nel Ciad. Nei poveri e dignitosi villaggi Nuba si coltivano sesamo, cipolle e arachidi e sono numerosi gli agglomerati abitati stritolati nella guerra tra il regime arabo fondamentalista di Khartoum e i ribelli neri e animisti del sud. Ora che è tornata una relativa calma, finalmente, c’è fervore per riprendere le attività quotidiane, coltivare i terreni -non prima di averli sminati: un’attività pericolosissima.

Toccano alle donne i lavori più faticosi come attingere l’acqua dai pozzi per portare i recipienti alle capanne, accudire i numerosi figli. I Nuba sono un popolo orgoglioso e fiero. Il comboniano padre Kizito Sesana è stato per tanti anni della sua missione tra i Nuba e ne ha sempre parlato con grandissimo rispetto come di gente resiliente, sottoposta a inimmaginabili soprusi come quello di essere stata costretta ad un continuo “esilio” – spostamenti forzati – interno e di aver conservato sempre, nonostante tutto, la capacità di ricominciare e di non perdere la speranza.

Anche i Masai, di cui conosciamo le figure lunghe drappeggiate di rosso, sono un popolo di pastori che oggi rischiano seriamente di essere ridotti a comparse fotogeniche per i documentari sul Kenya. La spiritualità masai in realtà ha un portato universale, concepisce la persona umana come co-creatrice dell’universo. La loro filosofia di fondo è improntata sulla dualità che è sovrana nella natura, come il giorno e la notte, e nell’intimo delle persone dove si scontrano continuamente impulsi altruistici e spinte egoiste. Un altro elemento fondamentale masai è l’atteggiamento improntato alla gioia. “Tutta la mia famiglia sta bene. La siccità persiste e non abbiamo nulla da mangiare. Domani andrò al fianco della Montagna Rossa e troverò dell’acqua”. Sono poi intimamente collegati alla natura nel suo pieno manifestarsi: “Non c’è niente come appoggiarsi ad un albero e perdere lo sguardo nel fogliame fino a sentirsi uno con esso per ritrovare la serenità e la forza interiore”.

È Xavier Péron, antropologo che vive da più di trent’anni con i Masai, ad aver raccolto spunti del loro pensiero sulla vita. Il loro – osserva – è essenzialmente l’atteggiamento del seminatore. Pianta il suo albero, butta nel solco i semi, se ne prende cura, accetta tutti i rischi che la piantagione e la semina non vadano a buon fine. Ma la buona volontà c’è, pazienza se tutto non va per il verso giusto. Un’altra considerazione che l’antropologo fa dei Masai è che quando hanno da rivelare una notizia negativa cercano sempre di inframezzarla con almeno due notizie positive, per quanto piccole e apparentemente irrilevanti, leniscono la sofferenza e rivelano gratitudine e ringraziamento. “Per gli uomini separati, dispersi e agitati che siamo diventati – conclude Xavier Péron – mi sembra importante diffondere il loro messaggio di chiamata all’unità interiore, all’apertura della coscienza, due fermenti essenziali di una vita più giusta e più umana insieme”. L’antropologia culturale, la scienza dell’uomo, ci insegna che abbiamo molto da imparare da piccoli popoli marginali per salvare la nostra civiltà, prima che sia troppo tardi.

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