Ius scholae, in classe con il mappamondo

Rileggo con calma e piacere uno scritto di un vescovo latino-americano del libro che ho sul comodino da moltissimi anni, perché nelle sue pagine trovo le mille domande di questa umanità e spesso altrettante risposte. Dice così: “Se potessi darei un mappamondo a ogni bambino… Magari un mappamondo luminoso, nella speranza di estendere al massimo la visione infantile e di risvegliare interesse e amore per tutti i popoli, tutte le razze, tutte le lingue, tutte le religioni”. È del giugno del 1971, ma sembra decisamente attuale, anche se il mappamondo appare oggi non troppo tecnologico e Google Earth ha certamente un fascino diverso.

Non era quello ancora il tempo delle inquiete migrazioni di oggi, anche se l’emigrazione era un fenomeno presente, basti pensare alle struggenti partenze degli italiani verso l’America del Sud e del Nord in cerca di fortuna e di vita. O verso la Svizzera, il Belgio, la Francia e la Germania, uscita da una guerra devastante e lacerata nel suo ricostruirsi. Certo non possiamo dimenticare che i nostri migranti venivano accolti, non sempre ma spesso, con l’indicazione di “italiani bastardi” o Gastarbeiter, parola che all’inizio non comprendevano. Insomma non erano sempre ospiti graditi al loro arrivo nei porti di New York o di Argentina, così come nelle distese minerarie della Ruhr, se non come braccia da sfruttare. Avevano pochi diritti e molte privazioni e sofferenze. E la stessa cosa succedeva agli irlandesi o agli spagnoli che risultavano essere dei fastidiosi vicini di casa o quantomeno persone di dubbia morale, se non di malaffare. Non era ancora il tempo della costruzione degli scandalosi muri ai confini del Messico e dei fili spinati ad est dell’Italia, anche se i muri ideologici erano fin troppo presenti e le differenze culturali escludevano più che unire.

Speravo che la storia ci avesse fatto riflettere e avesse insegnato a tutti qualcosa. Mi sbagliavo, anche se parecchi avevano capito. La questione dell’approvazione della legge sullo “ius scholae” ci riporta drammaticamente indietro nel tempo e ci rimanda alle stesse questioni che una scadente parte della politica riporta d’attualità.

Pensare che bambini e bambine, ragazze e ragazzi, presenti da più di 12 anni in Italia e che hanno frequentato la scuola per almeno 5 anni, una volta compiuta la maggiore età e su richiesta, non possano avere gli stessi diritti dei nostri figli mi pare una vicenda incredibile. Mi pare davvero una contorsione del pensiero, a meno che non rileggiamo tutto con il filtro di un evidente pregiudizio e razzismo, anche se questo modo di dire non è così “politicamente corretto”. Essere chiari in questo momento mi sembra però importante, perché si deve smetterla con l’ipocrisia, con i giri di parole e l’incapacità di chiamare le cose con il proprio nome.

Sono più di 8.000 gli studenti in Trentino che frequentano la scuola senza avere la cittadinanza italiana, di cui 5.231 nati in Italia e 2.884 nati all’estero, e rappresentano quasi il 12 per cento della popolazione scolastica. È significativo stabilire che l’aver frequentato per almeno 5 anni la scuola definisca un percorso di partecipazione attiva alla conoscenza della cultura, delle leggi, dei doveri del nostro Paese, oltre che dei diritti. E ancora, che l’aspetto positivo di questa legge sta nell’affidare finalmente un ruolo decisivo alla scuola, intesa come luogo di crescita e di formazione complessiva alla cittadinanza, alla legalità e all’equità.

Se non si vuol affermare l’obbligo dei cinque anni come un puro strumento legislativo vuoto e privo di una sua efficacia, bisogna scommettere sulla scuola e affidarle il ruolo di motore dello sviluppo di un intero Paese, in termini produttivi, economici e valoriali.

La scuola, per essere tale, deve però reinventarsi come luogo privilegiato dove ognuno può crescere e misurarsi con le istanze di un mondo in continua evoluzione, un luogo dove ognuno può aumentare la propria capacità critica senza mai sentirsi solo o escluso. Per cui non potremo fare sconti ad una scuola che non educa, che non ottiene risultati, che non si aggiorna, che non include, che non tiene conto delle difficoltà dei suoi studenti e non valorizza gli studenti più capaci. Per fare questo c’è bisogno di una politica non solo dell’edilizia scolastica, peraltro sempre più necessaria, ma di un sistema capace di verificare l’empatia relazionale, le competenze specifiche e l’aggiornamento di un’intera classe docente e dirigente, che per lo più appare demotivata, passiva e privata del suo ruolo sociale, pur avendo al suo interno potenzialità evidenti. Abbiamo sempre più bisogno di una scuola che sappia rispondere alle istanze di un mondo che viaggia ad alta velocità, ad un mappamondo in continuo cambiamento nei colori, nelle ambizioni, nelle aspettative.

Riapro il mio libro per trovare nuove domande e forse risposte. Uno scritto del 1964 dice: “Delle barriere da distruggere, quella che più costa, quella che più importa è, senza dubbio, quella della mediocrità”. Una provocazione? Una frase eccessiva o ad effetto? O una risposta saggia che rimanda ad un impegno profondo? Rimango in silenzio a sognare una scuola luogo per tutti, davvero per tutti: per tutti quelli che fanno parte del nostro presente e che saranno il nostro colorato futuro, per un mondo di donne e uomini con pari dignità, cittadini dell’universo.

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