Faremo sempre più fatica a percorrere in passeggiata il Viel dal Pan per goderci il panorama della Marmolada. Anche se non era più quell’estesa coperta candida immortalata dalle fotografie d’epoca, velata ora di non poche ombre grigie, continuavamo a immaginarla come un protettivo mantello bianco.
Dalle 13.45 di domenica 3 luglio – un sole che aveva invogliato a salire all’alba tanti alpinisti in questa prima estate senza mascherine – il distacco improvviso ha creato un buco nel mantello ghiacciato, provocando la scomparsa di tante persone care. Un vuoto di dolore profondo, che ora esige silenzio.
È quanto ha chiesto l’arcivescovo Lauro (vedi intervista) perché questa tragedia epocale non finisca nel tritatutto dei trancianti giudizi postati sui social (come riflette Giorgio Lunelli) e non venga poi artificiosamente rimossa come un evento “sfortunato”.
Il rispetto lo si deve forse anche a quel sentimento di gioia, affidato alle corde di guide esperte, che ha spinto gli escursionisti domenica a salire con lo stesso cristallino stupore con cui i pionieri dell’alpinismo avevano avvicinato il ghiacciaio immacolato a fine Ottocento o gli arrampicatori come Armando Aste avevano individuato le vie “ideali” lungo la parete sud. È il fascino primitivo ed eterno della Marmolada, la montagna prediletta che non a caso ricorre in tante leggende popolari – laiche e religiose – delle valli ladine, spesso con un intento pedagogico ancora attuale.
Un fascino che ha ispirato tanti “preti con lo zaino” come don Giuseppe Grosselli, che ha mosso alle ricerche d’archivio tanti appassionati come lo storico padre Frumenzio Ghetta. E che alla fine di agosto del 1979 ha visto fermarsi in contemplazione per qualche lungo minuto san Giovanni Paolo II, nonostante il nevischio che sferzava Punta Rocca e ostacolava la preghiera.
Ci vorrà tempo per ritrovare quel fascino, guardando da Pian dei Fiacconi il buco apertosi dentro la calotta non più bianca; prima dovremo accompagnare il cammino di risalita di quelle famiglie sprofondate nel dolore. E farlo in silenzio, senza sprecare le parole.
Nello stesso silenzio dovremo avvolgere la riflessione – suggerita dall’arcivescovo Lauro – sul monito che questa tragedia “imprevedibile” porta con sé rispetto all’innegabile modificazione dell’ambiente dovuta alla crisi climatica. Come rilevato da tempo da tanti esperti glaciologi e come ha raccontato il prof. Giorgio Daidola (si veda l’intervista di Augusto Goio) ci sono cause remote, ben documentate, sulla responsabilità umana rispetto al degrado dei ghiacciai.
La montagna, anche quella trentina, sta cambiando pelle: dobbiamo studiare e conoscere queste modificazioni più rapide del previsto, intervenire “prima che sia troppo tardi”.
Anche la frequentazione dell’alta quota dovrà modificarsi – con ulteriori attenzioni, stili alpinistici adeguati, modalità non impattanti – mentre fin dalla bassa quota si esigono le azioni necessarie a invertire la tendenza, a salvare il salvabile. In questo senso il buco del mantello è davvero uno strappo culturale, che dovrà pesare anche sul nostro impegno di cittadini e di cristiani, custodi del Creato.
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