I rifugi non siano autogrill della montagna

Foto Gianni Zotta

Questa estate così difficile, tanto che le alte temperature sembrano far bollire anche i cervelli degli uomini e fare emergere i comportamenti più contraddittori (la crisi di governo, il conflitto Russia – USA, oltre la guerra d’Ucraina, che mette in ginocchio l’Europa, l’inflazione, la drammatica siccità…) merita una riflessione anche sulle cronache che riguardano la montagna, da sempre, in regioni alpine come il Trentino, laboratorio di innovazioni sostenibili, ma anche scenario di pesanti dissipazioni ambientali e comportamentali. Due sono le emergenze che incidono sulla montagna mettendone a rischio le risorse di vita che offre, ma anche le motivazioni (equilibrio fra natura e lavoro dell’uomo) che ne costituiscono il fascino ed il richiamo. La prima è l’acqua, sempre più scarsa, la seconda l’impatto consumistico e predatorio che una frequentazione turistica sempre più disordinata comporta. Una montagna che spesso insegue prassi e modalità urbane dalle quali vuole rifuggire. Conviene fermarsi per ora su tre casi emblematici, che vengono dalla realtà dei rifugi. I rifugi sono importanti non solo per il loro ruolo turistico, ma per la loro funzione complessiva di presidio e di simbolo della montagna stessa… il rifugio “ultima baita”, raccordo fra la cultura della montagna e il suo uso, primo luogo di educazione allo “stile” della montagna, che è sobrietà, senso del limite, non conquista, ostentazione. Andare in montagna è un’alternativa di libertà alle costrizioni urbane, non la loro imitazione in quota. È naturalità, semplicità, non artificialità e neppure medianicità.

Ebbene, su tre casi contraddittori, merita soffermarsi. Il primo caso riguarda il nuovo Brentei, il secondo la gestione del Pino Prati ai Bindesi sulla Marzola, il terzo la situazione di affollamento al Gardeccia, porta del Vajolet.

Il Brentei è stato ampliato portandolo a un’ottantina di posti anche in un nuovo salone mensa-belvedere. Senza voler giudicare l’impatto estetico e l’equilibrio (o squilibrio) di forme a fronte dell‘imponente e “unico” Crozzon, sembra di trovarsi di fronte a un radicale mutamento di funzioni. È ancora un rifugio o sta diventando un condominio in quota? Un residence di cui non è difficile prevedere i consumi di acqua, energia, rifiuti anche umani? Il Brenta, montagna carsica, è sempre stato povero d’acqua, le vedette stanno scomparendo e non è certo immaginabile trasformalo in una macchina di consumi energetici a meno di non voler urbanizzare con impianti e infrastrutture il “cuore” del gruppo dolomitico. Altro che ridurre i consumi come tutti dovremo fare. Un discorso a parte merita il grande salone, che stando alle immagini promozionali diffuse è ben lontano dal calore “gemütlich” che ci si aspetta in montagna, per assumere piuttosto le dimensioni di quelle sale alberghiere da “banchetti” dalle quali, chi vi entra, cerca di uscire al più presto. Ai Brentei poi, se il tempo è limpido e clemente, il Crozzon si può ammirare meglio “da fuori” che “da dentro”, se è minaccioso è meglio perdere quota in fretta, se è nebbioso, cosa che accade con una certa frequenza in estate, il salone vetrato non basta certo a compensare la delusione.

Il rifugio ai Bindesi, sopra Villazzano, accanto alla “classica” palestra di roccia, con una vista stupenda su Trento, è stato adottato dalla città, ma resta un rifugio, snodo di passeggiate su quella montagna spesso dimenticata che è la Marzola. Non è solo un ristorante fuori porta. Non è solo un luogo per mangiare. Ora i nuovi gestori cui il rifugio è stato dato in appalto hanno indubbiamente i requisiti tecnici per gestirlo e la Sat ha bisogno di risorse dai suoi rifugi. Ma i gestori in questione hanno la gestione di più di un ristorante, a Trento ed anche fuori, sono professionisti, e i rifugi soprattutto della Sat non possono essere gestiti da catene di ristorazione, non possono diventare gli autogrill della montagna, a prescindere dalla loro cucina. Sono nati, invece, per promuovere il lavoro sulla montagna di uomini di montagna, creando una sinergia umana attorno al rifugio. Auguri ai nuovi gestori, ma se gli appalti si i moltiplicano e i rifugi Sat finiscono in mano a catene di ristorazione, la percezione della montagna trentina ne riuscirà sconvolta.

Il terzo spunto viene dai rifugi del Gardeccia, dove i gestori si lamentano che i clienti si fermano solo per approfittare dei servizi, senza neppure prendere una consumazione: “Tutti entrano, nessuno si ferma, ma allora – dicono – ci pensi il Comune, o la Provincia a portare fognature ed elettricità fino in quota”.

Il problema esiste, ma non è questa la soluzione. L’esperienza ha dimostrato che ogni ulteriore appesantimento strutturale del territorio si traduce in un suo uso intensificato, ne accelera il degrado, ne impoverisce il fascino e le funzioni alternative di proposta e richiamo. I Comuni poi, in questa fase storica devono badare in via prioritaria a rabberciare gli acquedotti di paese, con perdite ormai insostenibili al 30 per cento. E poi non si capisce perché in montagna i servizi non debbano essere pagati, magari con una “card” cumulativa che comprenda assicurazione, trasporti pubblici, uso dei servizi, da ristornare poi, per la loro parte ai rifugisti. I turisti vanno educati. La Sat lo fa già ed alcuni gestori hanno pur diffuso un “decalogo” che purtroppo pochi osservano. Basterebbe la buona educazione, il rispetto verso chi lavora in montagna, chi ospita i turisti, ma non ne è il servo. Altrimenti si faccia la “card”.

Questi della frequentazione della montagna, del lavoro e del tempo, di rispetto e limiti da ripristinare sono problemi urgenti da affrontare se non si vuole trasformare la montagna in uno stadio da curva sud.

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