Sei mesi di guerra nel cuore dell’Europa

Mykolaiv – foto Operazione Colomba

Il 24 agosto sono scoccati esattamente sei mesi di guerra. Guerra nel cuore dell’Europa e ancora oggi senza una vera, comprensibile ragione di tanta violenza da parte della potente Russia contro la ben più piccola e debole Ucraina. Un 24 agosto in cui, oltretutto, si è celebrato il 31° anniversario dell’indipendenza di Kiyv dall’Unione Sovietica. A complicare il quadro si è aggiunto il mortale attentato a Darya Dugina a Mosca, attribuito dalla Russia ai servizi segreti ucraini. Una Russia frustrata dalla enorme difficoltà di avanzare militarmente sul territorio del suo storico vicino. In effetti a guardare l’evoluzione del conflitto sul campo si ha l’impressione di essere in una fase di stallo. I russi avanzano nel Donbass con enorme difficoltà, ma al contempo gli ucraini non riescono, come dichiarato in più occasione, a riprendere il controllo su alcune città chiave. È il caso di Kherson da mesi nelle mani delle forze di invasione e considerata dagli strateghi come la porta di entrata verso il sud dell’Ucraina verso il porto di Odessa. Porto da cui oggi salpano le navi di Kiyv cariche di cereali, dal grano ai semi di girasole. C’è quindi da chiedersi nuovamente se vi siano spiragli per un cessate il fuoco o addirittura per l’avvio di trattative fra le due parti.

Se guardiamo alla vicenda del grano e alle modalità con cui si è arrivati all’accordo si potrebbe essere moderatamente ottimisti. Va dato atto al presidente turco Recep Erdogan, con la sua levantina e indigeribile ambiguità politica, di avere saputo trascinare sia Mosca che Kiyv a sbloccare una situazione che sembrava senza soluzione. Con l’aiuto, questa volta indispensabile, del segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, si è ottenuto un duplice beneficio. Il primo è che il prezzo dei cereali è notevolmente calato. Il secondo è che i carichi dell’indispensabile alimento raggiungono i paesi del Medio Oriente e dell’Africa che ne hanno estremo bisogno.

Va tuttavia riconosciuto che un tale risultato non sarebbe mai stato raggiunto se Vladimir Putin non avesse dato il suo avvallo. Anche perché la Russia non ha certo bisogno di esportare il proprio grano, almeno non nella misura in cui esso è vitale per l’economia ucraina. In fondo Mosca permette all’Ucraina e al suo grande settore agricolo di non collassare. Il che sembra una grande contraddizione in tempo di guerra, soprattutto da parte del paese che l’ha dichiarata e che intende (intendeva) cancellare l’Ucraina come stato indipendente dalla carta geografica. Una delle possibili ragioni che possono avere spinto Mosca a questo passo sono proprio le difficoltà a chiudere la partita con Kiyv sul campo. È come se ci si preparasse a dichiarare che il risultato “dell’operazione speciale militare”, come insiste a definirla Putin, sia stato raggiunto con la conquista pressoché completa del Donbass.

La realtà, come fanno trapelare gli attivissimi servizi segreti britannici, è che i russi hanno quasi esaurito le scorte di missili, più o meno intelligenti, e che di conseguenza la loro offensiva deve limitarsi ad indiscriminati bombardamenti con carrarmati o con cannoni. Per di più le sanzioni occidentali su alcune componenti necessarie per la costruzione di nuovi missili rende particolarmente difficile un rapido approvvigionamento.

Questo non vuole certamente dire che la strada sia spianata verso il cessate il fuocoNuovi elementi di conflitto e di ricatto si manifestano oggi intorno alla centrale nucleare di Zaporizhzhia, dove le truppe russe si sono rifugiate nella convinzione che gli ucraini all’esterno del più grande sito atomico d’Europa non oseranno bombardare. Ma anche qui, dal momento che il pericolo di radiazioni tipo Chernobil vale per tutti, russi compresi, Vladimir Putin ha finalmente accettato di permettere agli ispettori dell’AIEA di condurre un’azione di monitoraggio sullo stato della centrale.

Gli ucraini nel frattempo lanciano segnali di una rinnovata vitalità militare. L’uso di droni armati che colpiscono il comando navale russo sul Mar Nero o le operazioni di squadre di guastatori nei territori occupati, compresa la Crimea annessa già nel 2014 da Putin, stanno a segnalare la volontà di seminare il caos nelle forze russe acquartierate nelle retrovie del fronte di guerra.

Insomma, sembra davvero che ci si avvii verso una fase di stallo dove può diventare conveniente per entrambe le parti addivenire almeno ad un cessate il fuoco, magari parziale o selettivo.

Ma può bastare ciò per avviarsi verso un possibile negoziato? Vi è da dubitarne, poiché quello che realisticamente si potrebbe palesare è un conflitto congelato e non un vero e proprio accordo.
Sappiamo bene per esperienza che un tale tipo di conflitto può essere “scongelato” in qualsiasi momento. È quanto è accaduto dopo il 2014 con l’annessione della Crimea e la presenza di milizie filorusse nel Donbass. Malgrado gli sforzi, non proprio convinti, del gruppo di Minsk composto dalle due parti in lotta e da Germania e Francia il conflitto congelato di allora non si è mai risolto.
Ci ha pensato Vladimir Putin, il 24 febbraio di quest’anno, a risvegliare l’Europa e il mondo con una vera guerra, partendo proprio da quel conflitto quasi dimenticato e che appariva di secondaria importanza.

Non vanno quindi risparmiati gli sforzi da parte di tutti gli attori direttamente o indirettamente coinvolti in questa guerra di superare lo stato di stallo in cui ci vuole condurre Putin e di puntare ad una pace che sia duratura.

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