Bettazzi, il lievito del Concilio

“Se arrivo ai cent’anni, allora sarò… secolare”, scherzava qualche mese fa mons. Luigi Bettazzi con quell’umorismo che lo rendeva un pastore molto umano, vicino al popolo di Dio. Anche in Trentino dove nel 2017 ci regalò quest’immagine: “Non si mette mezzo chilo di lievito in cento chili di pasta. Noi siamo chiamati ad essere lievito. Ma il lievito è quello che si perde nella pasta. E perdendosi la fa lievitare”. C’era in questa metafora evangelica – ogni sua riflessione partiva sempre dalla Parola – tutta la sua carica conciliare, di protagonista e testimone del rinnovamento ecclesiale. Che aveva imparato a non vedere la Chiesa come “un esercito, come si diceva in certi canti – ci spiegava – ma come la comunione del popolo di Dio, servito dalla gerarchia ma aperto a tutto il mondo”.

In quell’ultima intervista di 6 anni fa a radio Trentino inBlu liquidò in poche frasi l’annosa questione interpretativa dell’assise di cui era rimasto l’ultimo testimone vivente: “Il Concilio va visto nella sua continuità dogmatica, perché non ha dato nessuna verità nuova, ma anche nella sua discontinuità pastorale, perché la Chiesa è un ente vivo; deve restare se stessa, ma sviluppandosi. Non è la verità che cambia, siamo noi che cambiamo, comprendendola e vivendola meglio. Quindi sbagliava e sbaglia ancora chi ritiene la tradizione immutabile. Io dico sempre che se sono ancora vivo è perché sono 93 anni che cambio…”.

Mons. Luigi, che in quel pranzo a Trento con i seminaristi trentini volle farsi chiamare bonariamente “nonno del Concilio”, vedeva così rilanciato il lievito conciliare da papa Francesco: “Nella Chiesa dei poveri, perché in un mondo dominato dai ricchi, la Chiesa deve farsi voce dei poveri. E poi nella sinodalità, che significa ascolto, partecipazione, comunione”.

Lui stesso ne era stato profeta prima nelle iniziative per gli “scartati” di Ivrea e in tante clamorose prese di posizione, poi scegliendo di vivere da vescovo emerito ad Albiano, in una fraternità di laici. E poi la sua passione educativa per i giovani, la volontà di dialogo fin da quel libro “Ateo a diciott’anni” che tanti tengono ancora sul comodino.

Nella Cattedrale di Ivrea sulla sua bara martedì c’erano il Vangelo e i colori arcobaleno della pace, che per lui non era una bandiera ma una scelta irrinunciabile da perseguire, da sognare, ma soprattutto da osare, come aveva ripetuto nelle campagne per l’obiezione di coscienza e ora per la guerra in Ucraina.

Il suo magistero, come quello dell’amico don Tonino Bello, meritano di essere riletti, anche da chi oggi lo applaude soltanto. “Alcuni pensano che ora che sei morto tu possa dare meno fastidio di quando eri vivo”, ha osservato al funerale mons. Ricchiuti, successore di Bettazzi alla guida di Pax Christi.

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