Con il Piano Mattei, Italia “ponte” tra Africa ed Europa

Piattaforma Eni nel Mediterraneo, a nord della costa libica. Foto wikipedia.org

Con la votazione alla Camera dei deputati si è concluso in questi giorni l’iter del decreto legge sul cosiddetto piano Mattei, decreto che istituisce i meccanismi politico-burocratici per la sua gestione. Il piano Mattei è fino ad oggi un oggetto piuttosto misterioso sia nei contenuti che nelle vere e proprie finalità. A chiarirlo, forse, ci sarà il successivo passaggio a fine mese nel Vertice Italia-Africa nel corso del quale saranno finalmente svelati, in collaborazione con i partner africani, alcuni obiettivi della futura cooperazione bilaterale.
Nelle intenzioni del nostro governo l’iniziativa dovrebbe avere un contenuto strategico mettendo l’Italia al centro di un sistema complesso di relazioni fra Africa ed Europa: la funzione di “ponte” o “hub” spesso evocata dalla nostra premier Giorgia Meloni. Ponte di cosa? Per il momento si parla essenzialmente del trasporto di idrocarburi dal Nord Africa e dal Caucaso del Sud (l’Azerbaijan) attraverso il nostro paese verso l’Europa centrale. Un hub energetico, appunto, che nasce dall’emergenza seguita all’invasione russa dell’Ucraina e dal conseguente drastico taglio delle forniture di gas da Mosca.
Già Mario Draghi, come è noto, aveva cominciato ad avvicinare i governi del Nord Africa a cominciare dall’Algeria allo scopo di aumentare i flussi di idrocarburi attraverso le pipeline già esistenti, nate proprio dalle politiche di Enrico Mattei negli anni ’50. Lui lo faceva per sottrarsi al monopolio delle Sette Sorelle americane, Draghi e poi la Meloni per diversificare le fonti energetiche. Va detto che queste attività hanno avuto un discreto successo riuscendo in effetti a diminuire dal 40% al 16% nel 2022 la nostra dipendenza da Vladimir Putin. Va tuttavia aggiunto che nemmeno i governi algerino e libico (nella sua attuale complessità interna) hanno realmente rispettato gli accordi sottoscritti con l’Eni. Nel caso algerino, ad esempio, rispetto ai promessi 6 miliardi di metri cubi all’anno siamo a stento arrivati a 3 miliardi. Meglio è andata con l’Azerbaijan attraverso la pipeline Tap e con l’accordo di raddoppiarla entro il 2027.
Quindi da un piano emergenziale si cerca di cogliere l’occasione per lanciare una nuova strategia Italia-Africa. Di qui l’esigenza di una legge che ne codifichi obiettivi e meccanismi di gestione. Per quanto riguarda questi ultimi va sottolineato come il tutto sia strettamente nelle mani del Presidente del Consiglio. È vero che subito sotto questo livello esiste una “cabina di regia”, ma talmente pletorica e numerosa (spaziando dai rappresentanti dei ministeri a quelli delle regioni, dalle università agli enti pubblici e privati e così via) che di regia sarà difficile parlare: semmai ne scaturirà una raccolta di proposte disorganiche e di richieste di vario tipo. Più efficace sembra la configurazione del successivo livello, il segretariato di coordinamento, composto da 19 membri di supporto alle iniziative della presidenza del consiglio.
Anche le dotazioni finanziarie sono estremamente limitate: 500 mila euro per consulenze ad esperti inserite in un budget complessivo di 2.643.949,28 euro. Se davvero si intendono raddoppiare, rinnovare e potenziare le necessarie pipeline le cifre da mettere in ballo saranno enormemente superiori. Dove si potranno reperire tali risorse è ancora tutto da immaginare. Sarebbe piuttosto naturale pensare ad un coinvolgimento massiccio dell’UE, ma nel decreto se ne parla assai poco. Anche l’UE, fra il resto, ha da anni un piano strategico Africa-Europa e anch’essa parla di partnership su basi di parità con i paesi africani. È quello che Giorgia Meloni ha definito come un atteggiamento italiano “non predatorio”. Ma per ora legami organici fra l’iniziativa italiana e quella europea non si intravvedono.
Va poi aggiunta un’altra riflessione. Per il momento il piano Mattei pone l’enfasi sulla distribuzione dall’Africa all’Europa di idrocarburi classici, gas e petrolio. Forse sarebbe meglio gettare lo sguardo un po’ più lontano, al di là della contingenza del momento di diversificare le fonti di approvvigionamento. Pensare, cioè, in termini di fonti rinnovabili. Anche su questo tema è oggi attiva l’Unione europea con il suo Repower EU all’interno del quale sta per nascere un’iniziativa lanciata da Germania e Austria e chiamata SoutH2. Si tratta in breve dell’importazione dall’Africa di idrogeno verde prodotto in quei paesi, attraverso l’utilizzo di pipeline già esistenti o costruendone di nuove che attraversano il nostro paese. Promuovere in altre parole un Green Deal euromediterraneo con un triplice vantaggio: aumentare la nostra sicurezza energetica; incentivare l’Agenda climatica dell’UE; rafforzare le relazioni con i paesi produttori fornendoli delle tecnologie appropriate per trasformare sole e vento in idrogeno verde. Sarebbe questo davvero il modo migliore per eliminare qualsiasi sospetto di atteggiamenti predatori attraverso lo sfruttamento delle risorse naturali, gas e petrolio, dei paesi del Nord Africa e al contempo di fornirli degli strumenti adatti allo sviluppo delle loro economie.
Infine, una notazione conclusiva. Il piano Mattei ha anche un secondo obiettivo dichiarato: disciplinare l’immigrazione nel Mediterraneo attraverso vantaggi economici per i paesi di origine e transito. È questo un argomento da affrontare con grande prudenza. Il pessimo risultato di una politica del genere sperimentato con la Tunisia con l’offerta di denaro (anche comunitario) a fronte del blocco delle partenze è un campanello d’allarme. La parziale soluzione di questo immenso problema sta in una vera e propria politica comune dell’UE (ancora di là da venire) e nei suoi rapporti strategici con l’Africa: pensare di fare da soli non ci porterà molto lontani.

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