Quei sacerdoti illuminati, ispiratori e innovatori

lo spunto

In passato i sacerdoti che guidavano le loro comunità erano veri e propri driver dell’innovazione. Esempio eclatante, don Guetti. Ma perché oggi gli uomini di Chiesa non sono più ispiratori al livello di don Guetti? (…) Quanto ci manca quel tipo di sacerdoti illuminati. Quanto bisogno avremo della loro saggezza, che ci aiuti a sollevarci dalle nostre miserie, che ci aiuti a rovesciare questo sistema taylorista che soffoca la Cooperazione in primis, rea di aver instillato nella base sociale un sentimento negativo di rassegnazione poiché si crede che nulla possa cambiare.

Giuliano Preghenella

Si sono affievolite molte cose, caro Preghenella, negli anni che ci separano dalla stagione di don Guetti. La fede pubblica, con una dimensione civile (perché ritengo che quella “privata”, personale, resista e se mai sia stata approfondita) sembra essersi appannata, e così la curiosità dei giovani, e anche la loro preparazione, e con esse il ruolo dei sacerdoti nelle comunità. Non è colpa della Chiesa, ma la maggior parte dei paesi è ormai senza parroco. E questa carenza, inutile negarlo, si sente, e ha pesanti riflessi negativi sulla stessa tenuta civile e sui comportamenti di una comunità che poi, per la sua parte, tende ad emarginare i sacerdoti che affrontano problemi “laici” ed economici. Non mancano del tutto, ma sono diventati quasi un’eccezione. Intendiamoci, la scelta – promossa e sostenuta da don Guetti – per una cooperazione aconfessionale, non limitata ad essere movimento ecclesiale, è stata lungimirante e profetica. Ma la cooperazione ha bisogno, quale premessa al suo operare, di una serie di valori (che si potrebbero in frettolosa sintesi riassumere nelle motivazioni del “buon samaritano” e nella sua educazione familiare) come riferimento. Non basta infatti essere “galantuomini” (come richiedeva don Guetti), anche se i problemi maggiori si risolverebbero forse tutti se così fosse, e non basta nemmeno essere competenti, ma occorre avere una visione antropologica, filosofica, esistenziale piena. I giovani che uscivano dal seminario negli anni di Guetti e poi andavano “in missione”, perché tale era il loro impegno nei paesi più remoti di valli e montagne, erano uomini di levatura europea.
Difficile dire se oggi lo siano altrettanto. Di certo stupisce ancora, in chi ha avuto la fortuna di incontrarli e conoscerli, direttamente o attraverso le loro opere, la profondità e la preparazione di questi uomini, come l’abate Bresadola per citare solo pochi casi (che di Guetti fu insegnante) il quale dal remoto paese di Ortisé, in val di Sole, dove era in cura d’anime, colloquiava a livello mondiale e scambiava informazioni sui miceti, sui funghi, con i maggiori botanici di statura internazionale, o mons. Fedrizzi, il grande musicologo appassionato d’arte, ma anche, per venire in tempi un poco più recenti, a uomini come mons. Dalponte, con la sua completezza educativa e sociologica, o don Rino Dallabrida, professore di latino e greco all’Arcivescovile, di spirito severo e francescano insieme, che conosceva il greco antico forse meglio dell’italiano, tanto che un colloquio con lui si tramutava in una esperienza socratica oltre che cristiana.
Non mancano neppure oggi i preti dedicati e innovativi, ogni cittadino, ogni cooperatore ne conosce il nome, ma essi sono spesso costretti a disperdersi, come “pendolari” da una parrocchia all’altra. Non è facile trovare una soluzione, ma le alternative esistono e in alcune situazioni sono state promosse e praticate. E però una cosa appare evidente. È tempo che la Chiesa si dia una diversa, almeno per certi aspetti, struttura territoriale, delegando magari a movimenti e volontari laici alcune mansioni gestionali e amministrative e concentrando la presenza dei sacerdoti, anche ridotti di numero, a sostegno delle famiglie e del lavoro (ad essere nuovamente lievito di buone pratiche per chi si trova incerto o in difficoltà).
Sulla famiglia merita davvero impegnarsi in una pastorale di presenza, e la diocesi di Trento avrebbe tutti i numeri per fare da apripista. La famiglia resta centrale ad ogni messaggio pastorale: per l‘armonia che deve nascere e radicarsi al suo interno, nella coppia e con i figli, ma anche per il suo ruolo di convivenza educativa nel tessuto sociale. Non a caso proprio don Guetti volle che i negozi della cooperazione venissero chiamati “Famiglie Cooperative” e sentiti come tali, non solo come luogo di smercio di prodotti. Non a caso voleva che i cooperatori si sentissero soci e non clienti. Alle famiglie sì – tutte – dovrebbero più dedicarsi i sacerdoti. Per questo vanno sostenute le cooperative, e la cooperazione, anche nelle manchevolezze, nella difficoltà di combattere su più fronti; l’egoismo umano, le ambizioni personali e la pressione dei mercati. Non vanno solo criticate. Hanno bisogno di un aiuto fattivo, anche perché sono le “famiglie cooperative” la vera scuola di cooperazione dei paesi e delle comunità.
Quanto poi alla partecipazione dei soci alle scelte “democratiche” diffuse (un uomo, un voto) è importantissima, ma nel contesto culturale e mediatico di oggi non può essere esclusiva. Anche a livello internazionale quanti danni, pur nei paesi di più antico radicamento, sta procurando una “democracy” senza contrappesi, senza un adeguato tirocinio di chi è chiamato a rappresentarla… Don Guetti, in questo era riuscito a trovare un equilibrio giusto. Sapeva l’importanza che aveva la presenza di preti (curati) con una esperienza contadina diretta in una comunità, ma cercava di coinvolgere tutti. Non perché fosse un “promoter”, o un “influencer mediatico”. Ai suoi tempi non c’erano i “social” e neppure, fortunatamente l’intelligenza artificiale, occorreva entrare nelle stalle, parlare a viva voce per farsi ascoltare. Ma don Guetti aveva anche aperto con sé stesso e con i paesi dei suoi co-montanari una scommessa che voleva vincere. Pensava e sperava che proprio attraverso le esperienze del lavorare insieme, e del sostenere insieme, nei paesi le “famiglie cooperative” i contadini uscissero dalla solitudine emarginata in cui erano lasciati. Non prevedeva, né poteva prevedere, le derive del populismo demagogico, oggi presente e così diffuso non solo nelle scelte politiche, né la difficoltà che hanno le attività “no-profit” di trovare una leadership di competenza adeguata e duratura. Ciò che don Guetti ha seminato però resiste. La cooperazione è diventata una grande pianta che richiede cure più esigenti, che merita anche un rinnovato impegno di valori cristiani e civili: famiglie cooperative.

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