Elezioni in Turchia, per il “sultano” Erdogan una sonora sconfitta

Recep Tayyip Erdoğan. Foto Wikipedia

Strana “democratura” quella turca. Nelle elezioni amministrative locali ha vinto la prima parte di questo neologismo: la democrazia. La dittatura per un attimo è apparsa in crisi o in secondo piano sullo sfondo. La sonora sconfitta del “sultano” Recep Tayyip Erdogan, che si è visto sottrarre gran parte del potere locale in Turchia, ha quasi del miracoloso. L’opposizione laica, il partito popolare repubblicano (CHP), ha addirittura superato nel calcolo complessivo delle elezioni amministrative il partito religioso di Erdogan, Giustizia e Sviluppo (AKP): 37,4% per CHP contro il 35,7% dell’AKP. Insomma, una sconfitta piuttosto inaspettata per il Presidente turco che durante la campagna elettorale aveva ricordato ai propri sostenitori che la forza del suo movimento islamista era partita all’inizio proprio da Istanbul, dove negli anni ’90 Erdogan era stato sindaco, e che quindi in questa tornata si doveva riconquistare Istanbul. In effetti, la grande metropoli sullo stretto del Bosforo era stata strappata al partito di Erdogan già nel 2019 da uno semisconosciuto leader laico, Ekrem Imamoglu, cogliendo di sorpresa il “sultano”. Tanto che Erdogan, indispettito, aveva dichiarato illegittimo quel risultato ed aveva preteso una seconda elezione, che tuttavia riconfermava Imamoglu.

Anche in queste ultime elezioni Istanbul è stata al centro della contesa politica, ma ancora una volta Imamoglu si è imposto con ben 10 punti di distacco sul candidato di Erdogan, il ministro dell’ambiente Murat Karim sostenuto nella campagna elettorale da ben 17 ministri del governo in carica che si erano alternati per favorire la riconquista di Istanbul. Città chiave non tanto per il suo significato di amarcord politico per Erdogan, quanto per la sua estrema importanza: vi vive infatti il 18% della popolazione e vi si produce un buon terzo del Pil complessivo della Turchia.

Ma la vittoria elettorale non si è fermata ad Istanbul, ma ha compreso anche la capitale Ankara, conquistata per la seconda volta dal sindaco uscente Mansur Yavas, e le maggiori città della costa occidentale Izmir, Adana e Bursa. Perfino nell’Anatolia, la regione della Turchia profonda pro-Erdogan, diversi comuni sono finiti nelle mani dell’opposizione laica.

C’è quindi da chiedersi che cosa potrà succedere in Turchia dopo questo sconvolgimento politico. È abbastanza evidente che si è trattato di un vasto “no” alla politica di Erdogan, soprattutto nel campo economico. Va infatti ricordato che il “sultano” nella precedente legislatura aveva deciso di prendere in mano le redini della politica monetaria. Contro il parere della sua banca centrale e degli economisti del paese aveva infatti deciso di adottare una politica espansiva indebitando enormemente il paese. Il risultato è che vi sono stati anni di iperinflazione che oggi si colloca al 67% e con il tasso di interesse centrale al 45%. Naturalmente la popolazione ne ha enormemente sofferto anche perché nel febbraio dell’anno scorso la Turchia, come è noto, è stata colpita da uno dei peggiori terremoti degli ultimi anni con quasi 55mila morti ed un’enorme distruzione materiale. Chiaro che in una situazione di iperinflazione anche la ricostruzione si dimostra estremamente onerosa.

Malgrado ciò nel maggio del 2023 Erdogan è stato rieletto presidente per la terza volta e fino al 2028 rimarrà probabilmente al potere. In quell’occasione l’opposizione, ben sei partiti, si era presentata piuttosto frammentata alle elezioni nazionali, tanto che Erdogan ne è uscito con un ottimo risultato elettorale. Sarà quindi possibile in futuro pensare di ritrovare un’opposizione più coesa, magari intorno alla figura di Ekrem Imamoglu, l’unico leader che ha battuto per ben tre volte Erdogan? I dubbi sono più che mai leciti.

Intanto il “sultano” avrà altri quattro anni per riuscire a ribaltare la situazione ed ha i mezzi per poterlo fare. Ha una grande maggioranza in parlamento, anche se non con i numeri necessari per fare passare un’altra riforma costituzionale che gli permetta di estendere oltre i tre mandati la possibilità di una sua rielezione. Poi non bisogna mai dimenticare che Erdogan è un “dittatore”, come ebbe ingenuamente l’ardire di definirlo Mario Draghi appena eletto presidente del consiglio. Basti ricordare il tentativo di colpo di stato, male concepito e peggio eseguito, del 15 luglio 2016. In seguito ad esso Erdogan, sull’onda dell’emozione popolare, è riuscito a varare leggi che gli hanno permesso un maggiore controllo sull’esercito (notoriamente laico), una gestione diretta del sistema giudiziario ed una serie di altri provvedimenti liberticidi sulla libertà di stampa e sul sistema scolastico e universitario. Le carceri sono quindi piene di giornalisti e oppositori del regime.

Non è quindi detto che, pur non potendo contare su una maggioranza schiacciante in parlamento, Erdogan non decida di aumentare la stretta sulle rimanenti libertà. Che finisca, quindi, come ha dichiarato Imamoglu, “l’erosione della democrazia” in Turchia è tutto da vedere. Per di più Erdogan ha sempre nelle sue mani la risorsa del “nazionalismo”, da utilizzare ad esempio contro i Curdi da sempre considerati una spina nel fianco della Turchia e all’origine di attentati terroristici e dell’espansione turca nel nord della Siria, dove si annidano i gruppi del PKK il partito che punta alla creazione di un’entità statale per il popolo curdo. Insomma, non sarà certo semplice scalzare il “sultano”.

L’opposizione laica ha quindi davanti a sé un’enorme responsabilità e un pesantissimo compito nei prossimi quattro anni.

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