«Quando pregate dite: Padre…»

27 luglio: Domenica XVII – Tempo Ordinario C

Letture: Gn 18,20-32; Sal 137; Col 2,12-14; Lc 11,1-13

«Quando pregate dite: Padre…» (Lc 11,2).

Nell’angolo di mondo in cui vivo sembra che il tempo sia scandito dalla preghiera. Dall’alba al tramonto dai minareti che circondano la mia casa riecheggia la convocazione alla preghiera, accompagnata dai ritmi assordanti delle chiese che pullulano nel nostro quartiere e dal rullio dei tamburi di chi segue le religioni tradizionali. Vi confesso che all’inizio tutti questi suoni mi stordivano; lentamente ho però percepito che si fondono in un’unica voce, la voce dell’umanità che grida il bisogno di Dio. Nella mia preghiera ho accolto questa voce divenendone parte.  Qualcuno potrebbe obiettare che quando tutto manca la razionalità lascia il posto alla preghiera. In realtà l’Africa mi ha insegnato che la preghiera è il respiro della vita perché crea la consapevolezza di non essere mai soli perché viviamo nelle mani più sicure, quelle del Padre.

Ritroviamo la stessa consapevolezza nel vangelo di Luca. Dal momento del battesimo, l’evangelista ha mostrato ripetutamente Gesù in preghiera (3,21-22; 4,18. 42; 5,15; etc.). Non sorprende dunque la richiesta dei discepoli: «Signore, insegnaci a pregare» (v. 1). Gesù risponde donando la sua preghiera. La forma lucana è più breve di quella matteana, utilizzata nella liturgia, ma è strutturata attorno agli stessi poli: il tu del rapporto con il Padre ed il noi del rapporto con i fratelli. La sezione tu (v. 2) chiede un cambiamento di mentalità: non si tratta di piegare la volontà di Dio ma di assumerla come prospettiva. Per questo pregare è chiedere al Padre di trasformarci in testimoni, purificando tutto ciò che in noi non santifica il Suo nome.

La sezione noi (vv. 3-4) è articolata attorno a tre parole: pane, perdono e tentazione. Il termine “pane” sintetizza ogni necessità della vita; lo chiediamo perché la preoccupazione per la sussistenza non divenga un impedimento al servizio del Regno. Con la seconda richiesta preghiamo il Padre di rigenerarci con la grazia del suo perdono perché possiamo servirlo nella libertà. Usando il verbo nella forma presente, Luca implica che il perdono non è un evento occasionale ma uno stile di vita: non possiamo chiedere il perdono di Dio se non viviamo nella disponibilità ad offrirlo a tutti. L’ultima richiesta, «non abbandonarci alla tentazione», si colloca nel cammino di condivisione del destino di Gesù: come Lui il discepolo è chiamato a scegliere Dio, la sua parola e la sua volontà, come il fondamento dell’esistenza; come lui è chiamato a distinguere la voce di Dio dalla voce del tentatore in un quotidiano colmo di parole: persone, social, opinioni, mass-media. Con Lui è chiamato a porsi nelle mani del Padre anche quando il futuro sembra offrire soltanto una croce.

Luca, come Matteo, incultura poi la preghiera di Gesù nella realtà della propria comunità. Se Matteo insiste sul perdono (6,14-15), Luca sottolinea la perseveranza (vv. 5-10) e la fiducia (vv. 11-13): se ogni padre umano vuole dare “cose buone” ai propri figli come dubitare che il Padre celeste donerà la cosa buona, lo Spirito Santo? Nel percorso narrativo lucano, lo Spirito rappresenta, infatti, la presenza stessa del Padre, il segno dell’appartenenza al Figlio, la forza dall’alto che consentirà ai discepoli di divenire testimoni «fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). Il dono dello Spirito racchiude dunque in sé tutto ciò di cui il discepolo ha bisogno per vivere la sequela e per trasformare la vita in un dono d’amore.

Chiediamoci: come mi lascio trasformare dalla preghiera di Gesù?

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