Benedette mascherine

Mascherine in vendita a Trento

Dopo aver riscoperto nelle nostre case il sacramento della Parola e la comunione spirituale, possiamo dunque tornare con prudenza a vivere l’Eucaristia dentro le nostre chiese: in comunità. Seduti nei banchi igienizzati, distanti l’uno dall’altro, senza il coro e la stretta di mano alla pace.

Non potrà (e non dovrà) essere un ricominciare come se niente fosse successo (anzi, c’è chi farà bene in coscienza a rimanere ancora a casa per non contagiare e contagiarsi) e come se tutto fosse già superato. A ricordarcelo, più di ogni cosa, saranno le mascherine protettive – fino a tre mesi fa accessori da chirurgo o da turista giapponese – che ora invece ci terremo strette sul volto anche durante la Messa (le toglieremo solo per ricevere l’Eucaristia) e che coprirà anche la bocca del sacerdote mentre ci dona “il corpo di Cristo”.

Ecco un’idea per chi pensa come animare l’offertorio della prima Messa domenicale: portiamo all’altare anche una mascherina come dono di questo tempo sofferto e sospeso, un simbolo con il quale ringraziare e fare memoria di quanto siamo e siamo chiamati ad essere.

La protezione personale insieme agli altri dispositivi ha salvato infatti molte vite umane da un contagio assassino che poteva essere ancora più devastante. Ci accompagnerà a lungo nella riflessione sulla nostra fragilità che il Papa ha avviato nella sua preghiera del 27 marzo in San Pietro mettendoci in guardia dalla presunta onnipotenza.

Ma sarà anche il monito a tenere una distanza minacciosa e insieme rassicurante, che ancora tutti troviamo decisamente innaturale: cosa c’è di più spontaneo ed eloquente di una pacca sulle spalle o di un buffetto sulla guancia? Eppure dobbiamo accettarlo questo distanziamento come primissima forma di rispetto dei nostri fratelli e della loro salute: gli altri dipendono da noi, abbiamo forse bisogno di altre prove dopo il Covid-19?

E’ una distanza fisica che non dovrà però essere sociale, come ha scritto qui per primo padre Gabriele Ferrari: guai se fosse distacco, indifferenza, chiusura nel proprio raggio. Anche con la mascherina addosso possiamo riscaldare gli altri con una vicinanza umana che non si misura certo a centimetri o con le regole base della prossemica, la scienza che studia le distanze fra le persone.

Benedetta mascherina, allora. O maledetta? Ci nasconde il segno di un sorriso, di un bacio o di una smorfia, ci priva per metà del volto dell’altro (ce lo ha ricordato il filosofo Silvano Zucal nel suo contributo pasquale), ma forse anche ci educa, ci costringe a saper leggere meglio, oltre quella barriera di stoffa, indagando a fondo negli occhi, specchio dell’anima, e prestando più attenzione alle parole.

Non dimentichiamo poi che alcune vittime dal camice bianco sono state provocate anche dall’ignavia di chi non ha provveduto in tempo a dotare gli operatori sanitari delle mascherine e che in alcuni casi anche la produzione industriale dei DPI è stata oggetto di turpi frodi di mercato sulle quali indagano ora magistrati di tutt’Italia.

L’elogio della mascherina – che in breve tempo impareremo a non dimenticare in giro, come fosse un inseparabile paio di occhiali da vista – si estende anche al suo originale colore bianco, richiamo efficace alla vicinanza a medici e infermieri. Peraltro gli stilisti della moda e dal costume hanno già lanciato modelli griffati dai colori comunicativi, ma esigenze di immagine e di commercio non cambiano la realtà profonda di ogni persona: “Ti conosco, mascherina…”

Simbolo democratico della difesa di un bene condiviso, le mascherine comuni e mute ci lanciano un messaggio chiaro: ci invitano a non dimenticare quanto abbiamo vissuto, a riconoscerci tutti uguali, bisognosi e dipendenti l’uno dell’altro, fratelli ora tornati alla stessa mensa.

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