Di fronte ai morti di Parigi

Dopo la strage di Parigi il rischio è quello dell’eccessiva semplificazione. Sono degli assassini, dei terroristi, dei fanatici. Tutto vero, ma forse il problema che sta alla base di questa escalation del terrore è più complesso, più difficile da capire e molto più complicato da risolvere. Quei morti interrogano tutti noi, al di là dell’indignazione, della rabbia e, per molti, del desiderio di vendetta. Ci si interroga su che cosa sta accadendo nel mondo islamico sempre più impegnato in una guerra interna, quasi fratricida. Ci si interroga sulle politiche portate avanti in questi anni dall’Occidente. Ci si interroga su che cosa significa libertà. Essere liberi significa fare quello che si vuole, o la nostra libertà, come insegnavano un tempo, finisce dove comincia quella dell’altro?

Papa Francesco da qualche tempo parla di una terza guerra mondiale. Certo non combattuta come le precedenti, ma, comunque, contraddistinta da conflitti sparsi nelle diverse parti del mondo. Forse siamo troppo approssimativi quando si fa riferimento all’Occidente che ha voluto “esportare” la democrazia in Iraq, in Afghanistan, in Libia e in altri paesi del modo arabo sulla scia dell’11 settembre, per non parlare del mai risolto conflitto tra israeliani e palestinesi.

Oggi, di fronte ai morti di Parigi, costatiamo che qualcuno si sente depositario della verità assoluta, così finisce per negare l’esistenza del prossimo. Chi ritiene di possedere la verità non riesce più a distinguere il bene dal male ed è quindi incapace di accettare la diversità dei valori. Una comunità può definirsi tale solo nella misura in cui si condivide abbastanza da riuscire a comportarsi in maniera civile. Forse non è necessario ricordare che per quanto tra gli ebrei, i musulmani, i cristiani, i buddisti e gli indù possano esserci dei terroristi, nessuna religione al mondo, e tanto meno l’Islam, incoraggia a praticare il terrorismo e a uccidere persone innocenti. La radice del male sta nella politicizzazione della fede e nella sua ideologizzazione. Due facce della stessa medaglia che rappresentano il vero rischio per la pace. Se il fondamentalismo, nelle sue diverse accezioni, pratica la violenza non può aspettarsi di essere riconosciuto e tanto meno tollerato. Combattere la barbarie significa dire “no” senza alcuna riserva al fanatismo e contemporaneamente, come suggerisce e pratica Papa Francesco, impegnarsi in un dialogo con tutti i credenti nemici di ogni forma di fanatismo.

E qualche segnale in questa direzione, sicuramente importante, sta arrivando. Il Wall Street Journal ha pubblicato nei giorni scorsi un estratto del discorso che il presidente egiziano Al Sisi ha tenuto il 28 dicembre all'università Al-Azhar del Cairo, in presenza anche delle massime autorità religiose. Le parole di Al Sisi meritano attenzione. Non molti leader nel mondo islamico hanno l'ardire di pronunciare accuse come queste: 
"E' inconcepibile che l'ideologia che noi santifichiamo faccia della nostra intera nazione una fonte di preoccupazione, pericolo, morte e distruzione nel mondo intero”, ha detto Al Sisi. “Abbiamo raggiunto il punto in cui questa ideologia è ostile al mondo intero. E' concepibile che 1,6 miliardi di musulmani uccidano il resto della popolazione mondiale, per vivere da soli? E' inconcepibile. (…) Abbiamo bisogno di rivoluzionare la nostra religione… Onorevole Imam (Gran Sceicco di Al-Azhar, ndr), voi siete responsabile davanti ad Allah. Il mondo intero aspetta le vostre parole, perché la nazione islamica è lacerata, distrutta, avviata alla rovina. Noi stessi la stiamo conducendo alla rovina".

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