Quei paesaggi “alla tedesca”

Grandiosi esempi ne sono il ciclo dei mesi di Torre dell’Aquila e l'analogo soggetto dipinto a Villa Margone

Si può ben capire che gli alberi abbiano nei secoli attratto non semplicemente la curiosità, ma il profondo interesse dei pittori trentini. La loro possanza, la infinita pluralità dei verdi e dei marroni, la vastità delle aree coperte non hanno paragoni. Meno ovvio è che la rappresentazione di piante e alberi, sia a sé che in gruppo (se così si può dire) ovvero boschi e foreste, spesso rivela una influenza artistica, più o meno diretta, d’oltralpe.

Grandioso esempio ne è il ciclo dei mesi di Torre dell’Aquila, la estrema propaggine meridionale del Castello del Buonconsiglio, realizzato su commissione del principe vescovo Giorgio di Liechtenstein nei primi anni del XV secolo. Davanti ai nostri occhi si sviluppano campagne e colline, giardini e castelli, giochi e amori, lavori e cacce, canti e tornei, attiva vita plebea e animata vita cavalleresca. Si tratta del sogno di un principe che ha chiamato dalla sua natia Boemia un affrescatore amico, Maestro Venceslao, per farsi raffigurare il Trentino come avrebbe voluto che fosse: senza i prevaricanti conti del Tirolo, senza gli infidi grandi aristocratici e senza i nobilucoli urbani arroccati nelle loro case-torri.

Concretissima, invece, l’attenzione alle piante, a trasmetterci l’idea di un Trentino ancora più boscoso di quanto non lo sia oggi. In particolare pensiamo a novembre, dove è ambientata la caccia all’orso, o a dicembre, con i boscaioli all’opera sul Calisio.

Poco dopo un secolo è stata affrescata la contigua Torre del Falco. Qui gli affreschi coprono la metà superiore di tutte e quattro le pareti interne. Dal punto di vista iconografico si dividono nettamente in sei scomparti corrispondenti alle due pareti minori e alle due metà di entrambe le pareti maggiori, separate dalle due finestre. Questa divisione non deve però fuorviare: il ciclo è unitario non solo dal punto di vista tecnico e stilistico ma anche iconografico. Il tema è quello della caccia. Con l’accorgimento delle sei partizioni l’artista (si era ipotizzato Bartolomeo Dill Riemenschneider, ma recenti studi hanno avanzato altri nomi, comunque sempre di maestri bavaresi o austriaci, in specifico Hans Bocksberger il Vecchio, di Salisburgo, 1510 ca. – 1561), e il committente Bernardo Cles hanno avuto modo di illustrare quello che qui viene esaltato come l’intrattenimento più apprezzato della corte principesco-vescovile in numerosi aspetti, tipologie e momenti.

Ne risulta un complesso grandioso, popolato di dozzine di figure, animali e scene estremamente dettagliate, sistematicamente immerso nel bosco o situato nelle sue immediate vicinanze. Nei paesaggi, stratificati orizzontalmente e sostanzialmente privi di interesse ad effetti di fuga prospettica, il senso della profondità viene ottenuto grazie alla sovrapposizione di strati paralleli di radure, boscaglie, filari d’alberi, laghetti che diventano sempre più piccoli, e più chiari fino al punto di svanire nel nulla: si tratta proprio quei paesaggi “alla tedesca” che per nulla piacevano a Michelangelo, ma tanto riscuotevano l’interesse di autorevoli trattatisti, da Leon Battista Alberti al Lomazzo a Giovan Battista Armenini.

Ancora pochi decenni ed ecco un altro importantissimo ciclo di affreschi, anzi quattro: il ciclo delle vittorie di Carlo V d’Asburgo, i due cicli del Vecchio e del Nuovo Testamento e il ciclo dei Mesi, affrescati attorno al 1560 sopra a Ravina, a Villa Margone, allora la residenza di campagna del ricco commerciante Giuseppe Basso.

Autore del complesso intervento una ben organizzata bottega coordinata da un pittore della cerchia di Gualtiero dall’Arzere (o Padovano). Di certo si servì ampiamente di stampe tedesche e olandesi nel senso che, secondo un costume assai diffuso all’epoca, piccole incisioni in bianco e nero alla moda vennero “tradotte” dai pittori in grandi affreschi policromi di assoluto impatto e efficacia. La gran parte delle scene, peraltro assai specifiche, sono ambientate e impaginate in un prepotente contesto boschivo. Così la battaglia di Pavia o l’esempio della clemenza di Carlo V nei confronti dei Medici, la moltiplicazione dei pani o la parabola della pecorella smarrita, i mesi di febbraio, aprile o novembre.

Il doppio ciclo neo- e veterotestamentario di Villa Margone costituisce la testimonianza artistica trentina più vasta e organica ove, nell’ambito religioso, l’attenzione a boschi e foreste è centrale. Ma relativamente alla raffigurazione di un solo albero è chiaro che l’immagine dei progenitori sotto all’albero della conoscenza del bene e del male non ha concorrenti.

Con Adamo e Eva sotto a quello che tanto spesso viene definito come un melo, anche in tutto il Trentino affreschi, sculture e dipinti si contano a decine. Dovendone scegliere un esempio iconograficamente emblematico e artisticamente valido, senza dubbio spendiamo due parole sul bassorilievo realizzato da un collaboratore del noneso Paul Strudel nella parte superiore dell’altare della cappella del Crocifisso (o “Alberti”) sulla fiancata meridionale del duomo di Trento (vedi a pagina 5). In modo piuttosto acritico tale bassorilievo è stato sistematicamente attribuito a Francesco Barbacovi, una figura di scultore “pressoché inafferrabile” per il quale attribuzioni e cronologia non risultano affatto suffragati da riscontri stilistici né documentari certi. Solo recentemente (2003) Andrea Bacchi e Luciana Giacomelli hanno, piuttosto, avvicinato l’importante rilievo allo scultore lombardo Antonio Albertino. Attivo all’interno della Fabbrica del duomo di Milano, fu in Trentino dal 1684-1685. Per la cappella del Crocifisso realizzò di certo il San Francesco in estasi e forse anche il Francesco Alberti Poia presentato da San Vigilio al Crocefisso e appunto potrebbe essergli attribuito anche il rilievo nella cimasa dell’altare con Adamo ed Eva nonché i quattro putti che lo circondano.

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