La roggia di Calavino, simbolo di una vita operosa

Il basso corso pullula di spumeggianti cascate, rapide e piccole forre

Calavino disponeva di una marcia in più rispetto ad altri paesi limitrofi: attività artigianali fiorenti grazie alla forza motrice dell’omonima roggia, che si infila tra le case stretta tra muri di pietra, argini naturali e lastrici. Sul finire dell’Ottocento operarono qui una trentina di opifici a conduzione familiare tra macinatoi, fucine, filande, economicamente rilevanti almeno fino all’avvento dell’elettrificazione. In quel periodo le seghe idrauliche erano nel pieno del loro sviluppo tecnologico, assurte a esempio di efficienza e funzionalità anche oltre frontiera. Un’epoca che già è storia, ma che rivive nei racconti di persone in là con gli anni, che hanno assaporato direttamente, fino alla prima metà del XX secolo, l’atmosfera di un mondo e di una comunità operosa.

La quasi totalità della portata della “Roggia di Calavino” deriva dalla confluenza di più sorgenti: il “Bus Foram” è la maggiore e non a caso il ramo da questa rinvigorito è detto “Roggia Granda” per differenziarlo dal ramo principale della “Roggia di Val”. La sua acqua, caratterizzata da una marcata regimazione stagionale, sgorga da una fenditura in profondità nella roccia e superato un salto di alcuni metri gonfia la roggia.

Lasciati alle spalle gli ultimi edifici del rione Mas, il basso corso pullula di ambienti che, modellati dalla millenaria azione erosiva del letto roccioso, movimentano il corso in giochi d’acqua di grande effetto tra spumeggianti cascate, rapide e piccole forre per poi gettarsi nella gola dei “Canevai” ricevendo come affluenti il “Rio Freddo” e il “Fos de Barbazan” prima di sfociare nel lago di Toblino.

Un flusso idrico che oltre a sollevare le condizioni di vita degli abitanti fu causa di eventi calamitosi. Fra le più gravi inondazioni, quella del 1882 comportò l’imminente costruzione di opere di contenimento atte a scongiurare altre ben più gravi tracimazioni, mentre durante l’alluvione del 4 novembre 1966, in seguito a lavori di allargamento e sistemazione della strada provinciale realizzati alcuni anni prima, la furia delle acque invase scantinati e locali ai piani terra. Ecco allora l’indispensabilità di interventi a garanzia della funzionalità idraulica da affidare ai proprietari terrieri confinanti con la roggia. La pulizia dei suoi segmenti muoveva dalla convinzione di essere membri di una “comunità di vicini” tanto che vigeva il divieto assoluto di ostacolare il flusso attribuendo priorità d’uso idrico alla collettività.

Nella Carta di Regola di Calavino si riconosce ai soli abitanti l’esercizio della pesca: “li pescatori dovranno avere riguardo di non dannificare l’entrate negli orti, campi e prati aderenti a detta Roggia”. Fa eccezione l’ultimo tratto, dal “fosso di Barbazzan” in poi, gestito secondo tradizione “colli padergnoni” (con gli abitanti di Padergnone).

A ritroso nei secoli, il principe vescovo Carlo Emanuele Madruzzo confermò il diritto possessorio di queste acque, concesso dal predecessore Alessandro di Mazovia nel 1437. Nel documento di privilegio si legge: “Tutte le acque correnti su terra della Comunità dei Vicini di Calavino assieme alla pesca sono di assoluta e perpetua proprietà privata (dei Vicini) e non di diritto pubblico o dominicale”.

La riaffermazione giuridica fu confermata dalla decisione del Capitanato Distrettuale del 1911: “Tutte le acque nel territorio comunale di Calavino ad eccezione del fiume Sarca non sono da ritenersi né da trattarsi acque pubbliche”. Antesignano, potremmo dire, del decreto legge Tremonti votato quattro anni fa dal Parlamento per sancire la gestione dei servizi idrici sottomettendola alle regole dell’economia capitalistica. In pratica, acquedotti e servizi idrici privatizzabili. Ma sappiamo bene com’è andata a finire.

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