“…ma perché siamo ancora fascisti?”

Lo storico Francesco Filippi al Trentino Book Festival nella foto di Valentina Ochner

Ma perché siamo ancora fascisti?”. Questa domanda ha accompagnato nell’ultimo anno molte delle presentazioni del libro “Mussolini ha fatto anche cose buone – Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo” (Bollati Boringhieri, 2019), scritto dallo storico levicense Francesco Filippi.

Ecco quindi che lo scorso 21 maggio è uscito “Ma perché siamo ancora fascisti? – Un conto rimasto aperto” (Bollati Boringhieri, 2020), nel quale Filippi prova a rispondere al quesito.

Nel corso di una presentazione di “Mussolini ha fatto anche cose buone” organizzata dalla Piccola Libreria di Levico, raccontavi che con la caduta del nazismo i Tedeschi hanno fatto un lavoro di “de-nazificazione” della lingua. Al contrario di noi Italiani…

Vero. Il linguaggio tedesco è stato identificato come “lingua dei nazisti” anche perché sono stati gli Alleati, e quindi gli stranieri, a fare la “de-nazificazione” in Germania. La grande differenza tra i due totalitarismi è come muoiono. Mentre il nazismo viene travolto e letteralmente annientato con l’occupazione fisica dello Stato tedesco nel ’45, in Italia c’è una strana e complessa situazione per cui secondo gli Alleati ci sono “Italiani buoni” e “Italiani cattivi”. Gli “Italiani cattivi” sono i fascisti che stavano coi nazisti; gli “Italiani buoni” sono quelli della cobelligeranza, questa strana parola inventata da Badoglio per spiegare i motivi per i quali l’Italia passa da una parte all’altra del campo. Il territorio che mano a mano viene liberato dagli Alleati viene riconsegnato a una realtà statale italiana che ha per gli Alleati una dignità. E la “de-fascistizzazione”, prevista nelle clausole dell’armistizio, viene affidata in toto agli Italiani stessi. Da qui nasce la difficoltà di fare i conti con se stessi. La prima domanda che sorge è: chi è stato fascista? O meglio, chi è stato abbastanza fascista da meritare una punizione?
La “de-nazificazione” fu tutt’altro che perfetta. Ma, quantomeno a livello di profondità, certamente fu migliore rispetto a quello che venne fatto in Italia. Qui il tema era pacificare piuttosto che epurare.

La copertina del libro di Francesco Filippi “Ma perché siamo ancora fascisti? – Un conto rimasto aperto”

Dopo ogni conflitto ci sono due esigenze: pacificazione e giustizia. Nel libro spieghi come in Italia, volendo accontentare tutt’e due le parti, non si sia raggiunta né l’una né l’altra cosa. Il ragionamento da cui si è partiti è: “Gli Italiani sono stati costretti ad essere fascisti”…

C’era l’idea della costrizione. Molta gente spesso si è anche convinta di essere stata costretta a diventare fascista.
La domanda vera che ci si doveva fare tra il ’44 e il ’45 era: chi è stato fascista? Chi ha avuto la tessera del partito? Ma allora si sarebbero dovuti licenziare tutti i dipendenti pubblici, dall’impiegato del comune al grande ministero, perché la tessera del partito era obbligatoria.
La “de-fascistizzazione” viene data in mano al Ministero della Giustizia, che è esso stesso permeato dal fascismo. Ed emblematico è il modo in cui la giustizia cerca di epurare se stessa. Abbiamo un cortocircuito per cui chi ha scritto articoli di giornale in cui diceva ad esempio che l’ideologia fascista in Etiopia era una cosa buona veniva considerato più colluso col fascismo, mentre veri e propri boia di regime sono rimasti al loro posto perché non avevano scritto nulla. Ma questo è accaduto in tutti i gangli della società.

Un altro punto sul quale ti soffermi è il ruolo degli storici in Italia…

In Italia il dibattito sul fascismo è il più largo e appassionante al mondo. Pochi come gli Italiani hanno scavato all’interno di questo fenomeno. Il punto è che si tratta di ragionamenti che rimangono all’interno delle accademie. Non saprei dirti il perché. È certo comunque che in generale la società italiana è poco abituata a rivolgersi agli storici per sentire la loro opinione. Se accendi un qualsiasi talk show, senti persone che parlano di storia, ma che perlopiù storici non sono.
Per molti anni gli storici in Italia hanno scritto libri per altri storici. Un bel libro di storia però è anche un libro che si diffonde, che si fa leggere. Penso alla letteratura storiografica anglosassone, ma anche a quella francese e tedesca. In Italia c’è grande attenzione all’analisi, ma ogni tanto bisognerebbe fare attenzione a quella che in maniera brutale si chiama divulgazione.

Benedetto Croce ha parlato di fascismo come “malattia”. È una metafora sbagliata?

Non la definirei sbagliata, ma comoda. È una metafora che porta con sé dei racconti pubblici autoassolutori molto semplici. Innanzitutto, chi è malato non risponde direttamente di ciò che combina. In secondo luogo, nella metafora crociana la malattia è un’interruzione della normalità che, se curata, porta direttamente al punto di partenza. Benedetto Croce era uno dei più grandi rappresentanti dell’Italia liberale degli anni Venti. Accanto alla metafora della malattia, egli porta quindi avanti l’idea della prosecuzione del Risorgimento.

Filippi al Trentino Book Festival - Foto Valentina Ochner
Filippi in una presentazione alla libreria Ubik di Trento – Foto Valentina Ochner

A tuo parere può esserci conflittualità tra l’articolo 21 della Costituzione italiana, che garantisce la libertà d’espressione, e la legge Scelba, che dichiara il fascismo reato?

Quando le madri e i padri costituenti stabiliscono che il fascismo è reato, hanno ben chiaro che cosa sia stato il fascismo. Hanno quindi sotto gli occhi la pericolosità di un’idea che non è declinabile in ambito democratico, perché vuole sfruttare la democrazia per farne qualcos’altro. Si tratta del famoso “paradosso della democrazia”. Un’idea liberticida, essendo anti-democratica, non può trovare posto all’interno del discorso democratico.

Per quale motivo allora l’idea che il fascismo sia un reato è stata in gran parte rimodulata?

Per tutta una serie di motivi. Il primo è dato dal fatto che l’Italia veniva da 20 anni di repressione della libertà d’opinione. Quindi, l’idea che si potesse punire un’opinione era particolarmente delicata. Eppure i padri e le madri costituenti la stilarono perché capirono la pericolosità di lasciare libero questo tipo di leggi.
Oggi il dibattito sulla legge Scelba e su cosa significhi tarpare le ali a un’idea è ancora vivo. Giusto? Sbagliato? Non lo so. Da cittadino prendo atto che per molti miei concittadini il fascismo è un problema minore rispetto a 70 anni fa, ma prendo atto al tempo stesso degli accenni al possibile ritorno di un sistema totalitario. O quantomeno di una decadenza verso l’autoritarismo della nostra democrazia.

Assieme ad altri storici hai creato il blog “Raccontiamo la storia, raccontiamola tutta”. Da dove nasce l’idea?

Da una mobilitazione spontanea. Uno dei nostri amici che fanno storia, Eric Gobetti, che si occupa in particolare di Seconda Guerra Mondiale nei Balcani, era stato oggetto di attacchi dai cosiddetti fascisti del terzo millennio attorno alla giornata del ricordo del 10 febbraio. In tanti abbiamo risposto a questi attacchi con uno slogan: “Raccontiamo la storia, sì. Ma raccontiamola tutta”. Partendo da quest’idea è nato il blog. È una piazza virtuale aperta: chiunque voglia può mandare contributi. Però deve seguire una metodologia storica scientifica, attenta e approfondita. È una piazza di confronto, un luogo che vuole essere accogliente. Anche perché purtroppo, di luoghi accoglienti, ce ne sono sempre meno. Soprattutto in rete.

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