Distretto Biologico Trentino, “Un’occasione per riprogettare la nostra agricoltura”

Marco Tasin nel suo appezzamento a Roncafort. Sul filare del frutteto utilizza piante aromatiche, come la Salvia maxima, per attirare insetti utili e come repellenti per gli insetti dannosi. Foto © GIanni Zotta

Dalla pratica alla teoria e di nuovo alla pratica, per promuovere l’agroecologia. È il percorso di Marco Tasin, 48 anni, di Trento. Dopo gli studi all’Istituto Agrario di San Michele all’Adige e la laurea in agronomia all’Università di Padova, una lunga esperienza lavorativa all’estero, nei Paesi nordici, per tornare un anno e mezzo fa nella sua città d’origine per dare concretezza alle convinzioni maturate e perfezionate a livello accademico. All’attività di coltivatore affianca quella di consulente e ricercatore. “Mi mancava il Bondone”, scherza, mentre ci accoglie nell’appezzamento a Roncafort dove ha introdotto pratiche agronomiche rispettose dei tempi della natura e all’insegna della biodiversità. Oggi l’agricoltura europea continua a utilizzare in maniera significativa la chimica, consuma troppa acqua e contribuisce all’effetto serra, riduce drasticamente la fertilità dei suoli e la biodiversità. Cambiare rotta è una necessità, avvertita anche, timidamente, dalla nuova Politica agricola comunitaria (Pac). “La mia è una sfida per capire se posso applicare nella mia terra quello che insegnavo, l’agroecologia, e se è possibile un’agricoltura innovativa, a impatto zero, senza pesticidi, concimi minerali, risorse non rinnovabili”. Ma nel contempo salvando anche la redditività.

È una scelta praticabile anche su larga scala?
Sì. Ci sono esempi molto significativi sia in Europa sia in Sudamerica. In Francia ci sono frutteti innovativi che stanno producendo bene: ciò grazie a un processo partecipativo che ha visto il concorso dei contadini, dei tecnici, delle istituzioni, dei consumatori. Potremmo fare lo stesso anche noi in Trentino.

Ciò comporta necessariamente l’abbandono della monocoltura per favorire la biodiversità?
L’importante è utilizzare la biodiversità “funzionale”

Che significa?
È quella che ci offre fondamentali funzioni a livello di ecosistema: la fissazione dell’azoto atmosferico, la fornitura di polline e nettare e di siti di svernamento per gli insetti utili. Funzioni da considerare prima di progettare il campo.

Un percorso che richiede gradualità. Il referendum del 26 settembre può dare una spinta in questa direzione?
Ritengo proprio di sì. È un’occasione unica per riprogettare la nostra agricoltura da qui ai prossimi trent’anni. Occorre superare i personalismi, andare al di là del mancato coinvolgimento di talune categorie, anche per ragioni pratiche (la Cia Trentino ha lamentato il mancato coinvolgimento degli agricoltori, ndr). Guardiamo invece cosa ci offre il referendum: un tavolo di dialogo e di progettazione dove tutti sono coinvolti, anche quelli che temono il fatto di abbandonare l’agricoltura convenzionale.

I timori non mancano. Come fugarli?
L’eventuale vittoria del sì avvierà un percorso da progettare assieme alle organizzazioni dei produttori e alle istituzioni. È un progetto in divenire. Ma oggi abbiamo le conoscenze scientifiche e agronomiche per passare gradualmente da una monocoltura – penso in particolare a quella del melo – basata su varietà sensibili ai patogeni che richiedono una ventina di trattamenti all’anno con fungicidi a largo spettro spesso non più sostenibili, a una produzione frutticola intensiva ma con più biodiversità e meno impatto ambientale. Sarà una transizione graduale.

Nessuna fuga in avanti, quindi.
Gli ecosistemi hanno bisogno di tempo per entrare in equilibrio. Ripeto, sarà una transizione graduale che non comprometterà la redditività.

Servirà un investimento deciso da parte del decisore politico.
Assolutamente sì. L’idea è di spostarsi da una ricerca riduzionistica, che va a indagare il singolo problema, a una ricerca sistemica: non andiamo a vedere come combattere quel determinato insetto, ma cerchiamo di capire perché è presente quell’insetto. Se c’è, è perché mancano i predatori.

Si tratta allora di favorirne la presenza.
Occorre riprogettare il nostro ecosistema, ad esempio introducendo una pianta che attiri i predatori. Se invece l’infestazione è importante, posso utilizzare i prodotti permessi in agricoltura biologica, che non danneggiano l’ecosistema e le persone.

La sua azienda ha avviato questo percorso di “conversione” biologica insieme ad altre realtà, riunite nella Comunità di Supporto all’agricoltura (Csa) “Naturalmente in Trentino”.
Come dice un mio amico produttore, le nostre aziende devono essere colorate, profumate, ospitali. In un frutteto “supertrattato” non puoi far entrare i bambini per la quantità di residui, nelle nostre aziende puoi tranquillamente prendere un frutto e mangiartelo.

Non c’è il rischio che il referendum favorisca una contrapposizione tra città e valli, come paventato dalla Cia Trentino?
A Trento e nei centri più grandi c’è una massa critica di consumatori che vogliono un’agricoltura pulita. Ma anche nelle valli c’è sensibilità su questo tema, si vuole un ambiente pulito. Dobbiamo ridare solidità e credibilità all’immagine di un Trentino pulito, anche a fini turistici. Dobbiamo dimostrare che ci stiamo impegnando per un’agricoltura pulita, che dia alle generazioni future un territorio sano. Oggi siamo tra le province d’Europa con il più alto carico di pesticidi. C’è una sfasatura tra immagine e realtà.

L’avvio di un percorso verso il biologico comporterà anche un cambiamento di atteggiamento del consumatore, che in maggioranza è già attento, ma forse cerca ancora il prodotto perfetto.
Detto che molti dei nostri prodotti non hanno nulla da invidiare a quelli coltivati tradizionalmente, non lo vedo come un problema. La qualità dei prodotti ce l’abbiamo. Caso mai deve cambiare l’atteggiamento. Al supermercato vado e compro, spesso senza sapere nulla di cosa c’è dietro il prodotto (caporalato? sfruttamento? inquinamento?): conta solo il prezzo. L’agricoltura industriale ha compresso i prezzi del cibo. Ma a quale prezzo? È necessario investire un po’ di più sul cibo, per avere una serie di vantaggi anche per le generazioni future.

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