La tregua pasquale con i fratelli dell’Est

Trento, la veglia pasquale nella cattedrale. Foto di Gianni Zotta

La Pasqua non sarà mai una parentesi chiusa. Resta sempre un sepolcro aperto, viatico per un rinnovamento non solo interiore.

Anche la tregua pasquale invocata alle Palme da Francesco non sarebbe un intervallo per ricaricare le armi, semmai un corridoio per qualche piccolo passo di pace. Confidiamo (e preghiamo) che questa richiesta del Papa non abbia lo stesso esito che ebbe l’appello di Benedetto XV nel dicembre 1914 per una “tregua di Natale”. Oltre a scuotere la volontà dei potenti e le tattiche dei loro strateghi (“L’unico modo di vincere una guerra è non farla”, dice Francesco), speriamo che questa tregua pasquale serva anche ad ognuno di noi. Per fermare la nostra attenzione davanti al sepolcro che sembra scavato quest’anno nelle fosse di Bucha e lungo il Calvario ucraino “meditato” in questo numero tutto pasquale da otto firme trentine.

Dopo quasi due mesi di guerra senza sosta e di orrori descritti e anche nascosti, avvertiamo in noi due spinte contrapposte, comprensibili ma certamente non pasquali: una sfiducia rassegnata che porta a rimuovere i dati di fatto e un’assuefazione che fa leva sul senso di impotenza.

Ci auguriamo di poter valorizzare questi giorni speciali, i più importanti della storia cristiana, per trasformarli (almeno noi) in una tregua pasquale che ci aiuti a rimanere come Maria “sotto la croce”, a ricavarne consolazione e coraggio per poi affrettarci a diffondere la speranza “contro ogni speranza”.

Troviamo traccia di questo modo di “fare Pasqua” dentro gli scritti sofferti provenienti da una fase da molti dimenticata della storia russa: sono lettere aperte, appelli, poesie, riviste, testi di riflessione di quel gruppo di cittadini e intellettuali che negli anni della dittatura sovietica hanno costruito una rete di editoria del dissenso denominata “Samizdat”. Parole robuste fiorite nella clandestinità e nella persecuzione, alcune scaturite anche dal buio dei lager, altre affiorate coraggiosamente nelle deposizioni dei processi avviati negli anni Sessanta e Settanta.

“La linea di quei pochi che sanno scegliere sacrificando se stessi è la luce che illumina il nostro futuro”, scriveva Aleksandr Solzenicyn, il più noto di questi autori; egli riconosceva come “autentica difesa del mondo personale, del mondo intero, di tutta l’umanità” soltanto “l’inflessibilità dello spirito umano, che abbia la fermezza di opporsi in tutti i modi alla violenza incalzante e sia disposta al sacrificio e alla morte”.

E’ la scelta radicale per l’altro nel rispetto sacro della comune dignità, della quale pure troviamo riscontri in alcuni testimoni di queste settimane dolorose. Una scelta di umanità e spesso anche di fede: “L’amore che non si risparmia – affermava Boris Talantov, nel 1970 “Dall’ultima lettera dal carcere” – l’amore sincero fra noi cristiani è la prova che siamo discepoli di Cristo”.

Ma è attualissimo ritrovare in quei dissidenti che operavano per una rinascita spirituale dell’Est anche la consapevolezza che la fede non deve mai diventare ideologia: “Non bisogna credere per tradizione, per paura della morte oppure per mettere le mani avanti – diceva Andrej Sinjavskij, che portò anche a Trento negli anni Ottanta la sua testimonianza – nemmeno perché c’è qualcuno che comanda e incute timore, oppure ancora per ragioni umanistiche, per salvarsi e fare l’originale. Bisogna credere per la semplice ragione che Dio esiste“.

Non solo pensieri, ma anche gesti. L’ucraino Valentin Moroz, grande storico contrario alla russificazione, finì in carcere, fece uno sciopero della fame e quando nel 1970 fu chiamato a deporre in un processo a porte chiuse disse: “Anche se sarò costretto al silenzio in una cella della prigione di Vladimir, c’è un silenzio che risuona più di un grido. E’ molto facile sopprimere una persona, ma voi non siete capaci di capire che i soppressi talvolta valgono più dei vivi”. In molti loro scritti c’era anche già una dimensione ecumenica: “Di quale libertà si può parlare quando i membri delle Chiese divise non sono nemmeno liberi da preconcetti nei riguardi delle altre Chiese” – si chiedeva M. Meerson Aksenov nel 1972 – Libera, non soltanto sulle vette della contemplazione mistica ma anche nella vita reale, può essere soltanto una Chiesa universale, perché essa è transnazionale, estesa su tutta la terra…”.

Pensieri coraggiosi, distillati di sapienza, che hanno scavato il solco, lasciando sgorgare una rinascita spirituale che ha interrogato anche l’Occidente secolarizzato. Questa Pasqua in preghiera per la pace, anche con la rilettura degli scritti del Samizdat, sarebbe suggerita da padre Nilo Cadonna, don Silvio Franch e padre Romano Scalfi, tre trentini che hanno speso la loro vita per unire e riunire i fratelli dell’Est, oggi lacerati dalla guerra.

Ad ognuno di voi, cari lettori, una proficua tregua pasquale!

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