La guerra è una pandemia, non conosce confini

Gerusalemme Est. Foto ANSA/Sir

Dopo quasi un anno di guerra nel cuore dell’Europa (manca davvero una manciata di giorni al 24 febbraio) siamo ancora tutti concentrati a seguirne gli sviluppi quotidiani con crescente preoccupazione. È, infatti, dalla fine del secondo conflitto mondiale che non sentivamo parlare di un rischio di terza guerra mondiale e addirittura di ricorso alle armi nucleari.

Questa parossistica e comprensibile attenzione alle sorti dello scontro fra Russia e Ucraina ci ha distratto da ciò che stava covando sotto le ceneri di altre situazioni complesse in altre parti del mondo. Abbiamo così considerato lo scoppio di una quasi-rivoluzione popolare all’interno dell’Iran come un fatto di politica interna, mentre in realtà la destabilizzazione di quel paese rimetteva in gioco i precari equilibri di potere nell’intera regione.

Così parimenti abbiamo guardato con occhio distratto quanto stava accadendo all’interno di Israele dopo l’ennesima elezione nel giro di pochi anni e il sesto ritorno al potere dell’immarcescibile Benjamin Netanyahu, questa volta alla guida del governo più a destra della storia di Gerusalemme. Sono bastati questi due eventi, in Iran e in Israele, per riportare in primo piano i rischi di un nuovo conflitto in Medio Oriente.

La drammatica e sanguinosa repressione della rivolta delle donne e dei giovani nella terra degli intolleranti Ayatollah ha messo in luce l’insopportabilità di un regime che si basa sull’estremismo religioso di stampo sciita. Regime per di più pronto ad intervenire nelle situazioni di crisi internazionali dal Medio Oriente, con l’appoggio alle rivolte in Yemen o nei territori palestinesi, fino all’aiuto alla Russia attraverso la fornitura di micidiali droni da utilizzare contro la popolazione civile nella sporca guerra in Ucraina.

Dall’altra parte, in Israele, il nuovo governo, anche qui sostenuto da partiti religiosi estremisti, inizia la propria attività con la provocatoria visita del ministro degli interni alla spianata delle Moschee, porzione di Gerusalemme ritenuta sacra dai musulmani palestinesi. Così sono ricominciate le stragi di palestinesi a Jenin in Cisgiordania e quelle di cittadini ebrei a Gerusalemme in una spirale di ritorsioni che difficilmente si riusciranno a controllare.

A preoccupare ancora di più è la natura dell’attuale governo israeliano che non è solo di estrema destra ma è anche ostile alle regole democratiche che hanno fino ad oggi sostenuto quel paese, unico esempio di democrazia in tutto il Medio Oriente. In effetti si è aperto un duro contenzioso fra Corte Suprema ed Esecutivo sulla nomina come ministro dell’interno e della sanità del rabbino Aryeh Deri, già condannato per frode fiscale e finito per due anni in carcere. La Corte ne vuole le immediate dimissioni. Netanyahu invece lo difende per la semplice ragione che il suo governo sta in piedi con i voti del partito sefardita di Deri.

Insomma, la totale assenza di democrazia in Iran e l’indebolimento di quella israeliana rendono ancora più probabile lo scontro fra questi due storici nemici con il rischio di coinvolgere gli altri paesi della regione, sia quelli dominati dalle milizie filoiraniane (Siria e Iraq) sia quelli del Golfo (Arabia Saudita e Emirati) di religione e potere sunnita, che considerano l’Iran come un nemico mortale.

I segnali di una crescente tensione in Medio Oriente si stanno già manifestando. L’attacco notturno di droni armati sugli impianti di missili iraniani a Isfahan, nel cuore di quel paese, è stato un primo avvertimento di una rinnovata attività di confronto fra Israele e Iran, anche se ovviamente l’origine dell’attacco viene mantenuta segreta. Tuttavia la stampa americana, a cominciare dall’autorevole Wall Street Journal, non fatica ad individuare in Gerusalemme l’autore dell’incursione di droni. Israele non nega invece il suo intervento diretto nell’attacco ad un convoglio militare di milizie iraniane al confine fra Iraq e Siria, probabilmente dirette a rifornire gli Hezbollah libanesi e i palestinesi, nemici dichiarati di Israele.

Questo rapido succedersi di eventi conflittuali avviene proprio nei giorni della visita in Medio Oriente del segretario di stato americano Antony Blinken, il cui compito sarà quello di cercare di rendere meno acute le ragioni dell’indurimento del confronto in Medio Oriente. Compito non proprio agevole, poiché quello che sta accadendo in quella regione assomiglia molto ad un prolungamento oltre l’Europa del grande confronto fra Washington e Mosca. Infatti, come di fronte all’attacco armato russo all’Ucraina si contrappone l’aiuto americano (ed europeo) a Kyiv, così le due potenze si sfidano in Medio Oriente, la Russia sostenendo a spada tratta Siria e Iran, mentre l’America rinsalda il proprio sostegno a Gerusalemme e alle Monarchie del Golfo.

Gli effetti nefasti della guerra nel cuore dell’Europa non si fermano quindi ai confini del nostro continente, ma proseguono con rinnovata intensità in altre parti del globo, a cominciare proprio dal Medio Oriente. Ciò sta a significare che la guerra è come la pandemia: non conosce confini. È per questo motivo che fermare la guerra in Europa dovrebbe essere l’obiettivo primario dei nostro governi.

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