L’autunno delle scelte chiama alla responsabilità

(Foto: Presidenza del Consiglio dei ministri)

Finite le vacanze, riaperto anche il Parlamento, la politica deve misurarsi con una congiuntura piuttosto complicata. Lo è sul fronte economico, dove la scarsissima disponibilità nel bilancio statale di fondi da spendere non è il solo problema, lo è anche sul fronte delle riforme, che non possono essere ridotte a quelle, pur importanti, in materia istituzionale (anzi è da evitare che si utilizzino dibattiti strumentali su quelle per nascondere i problemi principali).

Il ministro Giorgetti ha già chiarito in tutte le sedi possibili che non ci sono risorse per accontentare i fantasiosi progetti dei partiti alla ricerca di bandierine da sventolare sotto gli occhi del loro elettorato. Abilmente si insiste sul sottolineare come stiamo pagando la finanza improvvisata dei governi Conte, cosa respinta in maniera molto poco convincente dal leader pentastellato nell’imbarazzato silenzio dei vertici PD a suo tempo complici passivi di quegli errori. Anzi, per buttarla come si dice in caciara, da quelle parti si rilancia il mito dell’abolizione, addirittura mediante referendum, del Jobs Act di Renzi a cui imputano strumentalmente l’incremento della precarietà.

Sono giochi degli specchi poco dignitosi, non fosse altro per il fatto che anche una eventuale abolizione per via referendaria (lunga e perigliosa) di quelle norme non rimetterebbe in vigore quelle cancellate a suo tempo (il famoso articolo 18). Ma tant’è: Schlein e compagni sono succubi di un astratto “fare cose di sinistra” e suppongono che per raggiungere questo obiettivo sia sufficiente mettersi al traino della CGIL di Landini.

La parte responsabile del governo ritiene che le poche risorse disponibili vadano impiegate per tutelare per quel che è possibile un magro incremento dei salari (conferma del taglio del cuneo fiscale per i salari più bassi) e per tamponare gli interventi indifferibili. Il problema è che la presa della premier si sta indebolendo, perché non riesce a produrre qualche progetto forte: soprattutto non sembra in grado di mettere mano al contenimento delle varie corporazioni (balneari, tassisti, più tutte quelle che non si vedono). Non è una questione banale, perché alla realizzazione delle riforme della concorrenza, del processo civile, del diritto allo studio e via dicendo è legata l’erogazione dei fondi europei per il PNRR.

Fitto cerca di scansare l’ostacolo opponendo che quelle riforme sono impossibili da fare entro la scadenza del 2026, perché su di esse pesano ritardi di decenni, ma l’argomentazione è abbastanza debole. Se non riusciamo ad avere le prossime rate per il PNRR, o anche solo se saranno posticipate in attesa che ci decidiamo almeno ad avviare le riforme per cui ci siamo impegnati con l’Europa, le sofferenze per il nostro bilancio cresceranno ulteriormente.

Tutto questo accade poi in un quadro geopolitico quanto mai perturbato. La politica estera è una dimensione su cui Meloni ha molto scommesso raccogliendo anche dei successi di immagine, ma adesso il gioco si fa duro. Lo scenario europeo è tutt’altro che tranquillo con il venir meno di un nucleo guida autorevole, visti i guai non solo della Francia, ma anche della Germania, della Spagna, dell’Olanda, nonché la situazione piuttosto

problematica nei paesi dell’Est che risentono fortemente della guerra russo-ucraina (con le incognite che su questa gravano per il turbinio pre-elettorale delle prossime presidenziali americane).

Un governo alle prese con falsi problemi come la approvazione dell’autonomia differenziata per le regioni (un’impresa di pura immagine per la Lega che al paese porterebbe solo costi e confusione) e incapace di mettere un freno alle sirene delle demagogie radicali non è in buone condizioni per affrontare il passaggio difficile che ci aspetta. Certo ha il vantaggio di non dover temere un’opposizione che a sua volta, tranne rare eccezioni, risponde a sirene più o meno simili, il che non la rende certo competitiva come alternativa da offrire agli elettori.

Pensare di uscire dall’impasse con il varo dell’ennesimo artificio populista, l’elezione diretta del presidente del Consiglio a cui si daranno armi per non essere ribaltato in parlamento, ripropone l’eterna illusione che avvelena la politica italiana dalla fine della tradizionale repubblica dei partiti: mettere una camicia di forza dall’esterno per imbrigliare un’opinione pubblica che non si è capaci di educare alla razionale e consapevole partecipazione politica.

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