Venti, venticelli e refoli d’aria

Tutti a disquisire sull’interpretazione dei risultati elettorali dell’Abruzzo dopo averlo fatto su quelli della Sardegna. Le spacconate sul cambio del vento che abbiamo sentito da leader della sinistra e da commentatori che li adulano lasciano adesso il posto ad altre opposte celebrazioni del successo del destra-centro. In verità non ci voleva molto a capire che quando si vince come nell’isola per 1600 voti di scarto e approfittando della incapacità degli avversari di scegliersi un candidato attrattivo, più che di un cambio di vento c’era da parlare di un refolo di fortuna.

Altrettanto non bisogna esagerare sulla solidità del blocco di destra-centro, che anch’esso beneficia di una incapacità degli oppositori di dar vita ad una autentica coalizione alternativa anziché ad una ammucchiata di sigle. Nessuno invece sembra preoccuparsi di un dato allarmante: ormai si reca alle urne più o meno la metà degli aventi diritto. Gran parte di chi si astiene è motivata più che da sfiducia in questo o quel partito, dalla convinzione che tanto con le varie forze politiche se non è zuppa è pan bagnato.

Non è una bella prospettiva per la nostra democrazia. Le forze politiche continuano ad alzare i toni, a drammatizzare, i conduttori dei talk show fanno a gara a dar spazio agli interpreti dei radicalismi alla moda, ma il coinvolgimento dei cittadini nella vita politica non si incrementa: al più ci sono minoranze che protestano per le più varie ragioni, poco sensibili a confronti costruttivi.

Indubbiamente nell’esame dei risultati in Abruzzo si potrebbe vedere un gentile venticello primaverile che indebolisce i populismi più sfacciati: lo testimonierebbe il più che modesto risultato della Lega salviniana, e l’autentico crollo dei Cinque Stelle di Conte. Parliamo di un venticello perché temiamo sia ancora presto per sentenziare la fine di quelle impostazioni: vedremo come andrà alle elezioni europee, dove molti elettori si sentono più liberi di dar sfogo ai loro pregiudizi perché non vedono alcuna ricaduta pratica di quel voto (nelle elezioni amministrative c’è sempre una maggiore consapevolezza che si sta decidendo sulla gestione di politiche che possono incidere sulla vita della gente).

Si deve tenere conto che se il trend di ridimensionamento della Lega e di M5S si confermasse coi risultati del 9 giugno (e bisognerà vedere quanta gente andrà a votare, perché una eventuale scarsa partecipazione costituirà una comoda scusa per ridimensionare quegli esiti) le conseguenze possono essere molto diverse. Nel caso della Lega c’è la possibilità che ci si sbarazzi del salvinismo (che comunque venderà cara la pelle) e che facendo perno sul suo radicamento storico in alcune regioni del Nord il partito recuperi un ruolo, sia pure non più alternativo al progetto della Meloni col suo nuovo ora importante alleato che è Tajani con FI in forte ripresa.

Nel caso dei Cinque Stelle la situazione è tanto opaca quanto complicata. Quel partito ha una classe dirigente molto modesta e non si vede chi possa ambire a sostituire Conte. Proprio per questo ci sembra difficile che possa diventare una appendice ragionevole del PD, che, a sua volta, non è che abbia una leadership brillante o portatrice di un progetto politico capace di parlare alla generalità del paese (lo impedisce in gran parte la impostazione movimentista e la moda di ridurre tutto a difesa di presunti “diritti” che riguardano settori limitati della società).

A noi sembra che mentre l’indebolimento della Lega salviniana non nuoccia più di tanto alla destra-centro, che anzi potrebbe trovare un incentivo a procedere sulla via della stabilizzazione verso un conservatorismo che abbandona le vecchie pulsioni radical-nostalgiche, il deciso ridimensionamento dei Cinque Stelle rende ulteriormente difficile la trasformazione dell’equivoco “campo largo” in una alleanza convinta e consapevole nel riprendere la via del riformismo democratico.

La frammentazione che c’è nel campo di ciò che fu la sinistra è molto maggiore di quella che esiste nella destra-centro. Nel cosiddetto campo largo si pone davvero il tema di un “federatore” che sia in grado di suscitare una nuova cultura politica egemone, strumento essenziale per costringere alla ragione i dispersi della stagione che ebbe il nome, glorioso ma poco appetibile, di “alternativa” alla decadenza dell’Italia nella crisi di fine secolo.

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