Lo spunto
Ci siamo dimenticati di Gino Tomasi? Non voglio essere un testardo e insistente seccatore se, ancora una volta, ritorno a ricordare, con gratitudine ed emozione il nostro dott. Gino Tomasi. E a riproporre alla nostra Trento, e al suo impagabile Bondone, di “fare qualcosa”, di ideare un tangibile segno per ciò che ha fatto, per il tanto che ha donato e gestito con attenzione, competenza e professionalità, come dedicare a lui una piazzetta, un vicolo, un piccolo angolo di città, mentre “lassù”, al Monte Bondone, alle Viote, sarebbe ideale posizionare una targa all’inizio del vialetto che dal megaparcheggio scende verso il rifugio, o meglio verso il giardino botanico. Basterebbero tre sole parole: “Grazie Gino Tomasi”. Confido nella lodevole Pro Loco (ora rinnovata nelle cariche) e nel Muse, ovviamente. Resto in fiduciosa attesa che chi rappresenta oggi la comunità trentina si ricordi di Gino Tomasi.
Italo Leveghi
Non è la prima volta che Italo Leveghi, custode dei sentimenti, oltre che delle vecchie storie della comunità trentina, scrive ai giornali per tener vivo il ricordo di Gino Tomasi. E fa bene, perché Tomasi merita un “segno” cittadino che ne trasmetta la testimonianza e il ruolo alle future generazioni, affinché esse conoscano come la natura, e quella alpina in particolare, non è un bene prezioso solo in sé stesso, ma una somma armoniosa di culture diverse che si compongono e si esprimono sostenendosi e moltiplicandosi l’un l’altra. Essere “naturalista” come Gino Tomasi si definiva anche sulla carta d’identità non è una specializzazione scientifica o accademica, anche se richiede conoscenze specifiche, non è un ruolo, anche se i ruoli servono a promuoverne l’attività (ed egli è stato il direttore storico del Museo tridentino di Scienze naturali, preparando con il suo “vice” Bernardino Bagolini, un uomo davvero eccezionale, le nuove generazioni che in questi ultimi anni hanno portato al successo nazionale del Muse).
Tomasi sapeva che la cura per la natura non può essere neppure solo generosa militanza. Appoggiava i movimenti e da questi era sostenuto, ma sapeva che suo dovere era anche rapportarsi con le presenze e le strutture istituzionali e traghettare il Museo, con il suo patrimonio di uomini, di storia, di ricerca scientifica, di identità, attraverso le bufere politiche ed economiche che investivano il Trentino e che, negli anni Sessanta e Settanta, dopo l’alluvione del 1966, con la contestazione, la seconda autonomia, il piano urbanistico, i parchi, l’impatto dei collegamenti autostradali, non erano inferiori a quelli che lo scuotono oggi.
Gino Tomasi sapeva che la natura, con la sua bellezza e “saggezza” è il collante di tutte le esperienze umane, e richiede a uomini e donne non solo rispetto e studio, ma collaborazione. Aveva il culto dell’amicizia, della coralità (fare le cose insieme, come cantare insieme, ognuno “tenendo” la propria parte, senza sovrapporsi e senza voler emergere sugli altri), ma sapeva dare una interpretazione anche antropologica della bellezza naturalistica, osservando come le specie che affrontano le zone più emarginate e che vivono negli ecosistemi più difficili, elaborino caratteristiche specifiche, marcate, distintive. Così è anche per gli uomini e le donne, osservava e ipotizzava. Come i colori dei fiori che crescono in montagna, ai limiti della vegetazione, sono più vividi di quelli della stessa specie quando cresce più in basso, così la voglia di lavoro e la ricerca di libertà, di autonomia di chi vive nei masi altoatesini, o mocheni, o solandri è più spiccata di chi vive nelle città o in contesti urbanizzati. E in questo si rifaceva alle testimonianze e ai racconti di Giuseppe Sebesta e delle guide alpine nei primi Annuari Sat. Con queste premesse Gino Tomasi costruiva attorno a sé fitte reti di amicizia che ora, dopo la sua dipartita, chi le ha vissute rimpiange. In questo contesto – riteniamo – nasce anche la sua passione e predilezione per il Bondone, non solo la “montagna di Trento”, non solo il luogo ideale per l’orto botanico della Viote, che egli curò con un altro grande naturalista trentino, diversissimo da lui per carattere, ma profondamente benemerito per il suo impegno civico, non solo scientifico, il prof. Franco Pedrotti, botanico di fama mondiale sempre attivissimo, ma è la montagna – il Bondone – che Trento ha la fortuna di avere sulla porta di casa, da farne lo spazio delle proprie esperienze più profonde, la radice della propria identità culturale e civile, lo spazio della propria libertà. Non un parco giochi, non un contenitore di solo turismo, ed è per questo che è giusto prendere in considerazione la proposta di dedicargli, proprio alle Viote, una targa con le tre parole che Italo Leveghi ha suggerito: “Grazie Gino Tomasi”; non occorre altro. A porla, dopo il doveroso beneplacito del Comune, la targa, senza esagerare in discorsi, potrebbero essere in molti. Un gruppo dei suoi amici, i suoi collaboratori del museo che egli preparò per il Muse, con chiara visione dei tempi, anche se sapeva (e non lo nascondeva) che non erano i suoi, ma i giovani li preparò ugualmente alle nuove esperienze e alle potenzialità espositive delle nuove tecnologie informatiche, grazie anche a borse di studio della Fondazione Caritro; oppure potrebbe essere il Filmfestival, ricordando il suo impegno per il Premio Itas, che non è solo una manifestazione editoriale, accanto a quella cinematografica, ma vuole essere un soffio di aria pura e sottile (la lettura libera il cuore, non solo la mente) che viene dai monti e dalle esperienze di vita sui monti, a ravvivare e ripulire la dimensione virtuale della mediocrità comunicativa. Vuol anche essere, il Premio Itas, una rete di contatti e di amicizia e sotto questo profilo il sodalizio che si è stretto fra due uomini diversi, ma “complementari”, come Mario Rigoni Stern e Gino Tomasi costituisce un patrimonio che Trento non può disperdere, né deve scordare. Un breve ricordo per Gino Tomasi alle Viote non è quindi nostalgia, ma segnavia di un percorso di identità sulla montagna e nella natura che per Trento continua.
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