Etiopia spinta al collasso, urge un vero negoziato

Fra le conseguenze della guerra interna anche l’aumento dei profughi. Foto Siciliani/Sir

Un anno di guerra sanguinosa nel Tigray, nel nord del Paese, provocata dal premier Ahmed. E l’Europa non si muove.

Così si getta alle ortiche un premio Nobel per la pace. È quanto sta accadendo al premier etiope, Abij Ahmed, insignito dell’alta onorificenza nel 2019 ed ormai da un anno alle prese con una sanguinosa guerra nel nord del Paese, il Tigray, da lui stesso provocata.

Quella che sembrava allora un’operazione militare di pochissimi giorni si è nel frattempo trasformata in una quasi-disfatta dell’esercito federale di Abij Ahmed. Oggi le forze ribelli di quella regione periferica, il Fronte di Liberazione del Tigray (TPLF), sono arrivate a poco meno di 200 km da Adis Abeba, la capitale, ed obbligano Ahmed ad incitare i propri cittadini ad armarsi e a “morire per l’Etiopia”. Le ragioni del capovolgimento delle sorti della guerra sono molteplici. La prima è stata la sottovalutazione della capacità di reazione del Tigray. I Tigrini, un’etnia minoritaria, hanno infatti gestito il governo federale dell’Etiopia per ben 27 anni, fino al 2018 quando dalle elezioni è emersa la figura del nuovo leader Ahmed.

Nei decenni precedenti i Tigrini hanno quindi tenuto saldamente nelle loro mani anche le leve dell’esercito e nel momento dell’estromissione dal governo hanno portato i loro uomini migliori e le competenze militari nella loro regione di origine, il Tigray. Dopo i primi momenti di sbandamento all’indomani dell’attacco di Adis Abeba e della caduta della loro capitale regionale Makallé, per gli ex militari Tigrini è stato abbastanza semplice rovesciare con il tempo l’andamento del conflitto, riprendendosi la capitale e spingendosi più a sud con la conquista di due città chiave, Dessie e Kombalcha. L’importanza di questa avanzata verso Adis Abeba è anche legata al fatto che i guerriglieri Tigrini hanno interrotto la strada che porta a Gibuti, l’unico accesso al mare per l’Etiopia e dalla quale transitano gran parte delle merci che tengono in piedi l’economia nazionale. Facile quindi pensare che, al di là delle conquiste militari contro il governo centrale, si prospetti anche uno strangolamento economico e logistico di Adis Abeba. Se questa è oggigiorno la situazione militare sul terreno, a rendere le cose ancora più complicate per il premier Ahmed vi è la saldatura del Fronte del Tigray con altre etnie e regioni che hanno colto l’occasione per prendere le distanze dalla politica centralizzatrice del governo federale. Così intorno al TPLF si va formando un’alleanza di ben nove gruppi etnici e locali che ha preso il nome di Fronte Unito delle Forze Federali e Confederali dell’Etiopia. Uno schiaffo e una reale minaccia per il premier Ahmed che proprio sulla centralizzazione del potere nelle mani del governo federale ha trovato fin dall’inizio l’opposizione del Tigray. Sembra quindi imboccata la strada verso un collasso dell’Etiopia come stato unitario, a meno che non si trovi la forza di aprire un vero e proprio negoziato fra tutte le parti in causa per salvaguardare la sopravvivenza del Paese.

Il guaio è che la reazione di Ahmed è tutt’altro che pacifica. Di fronte ai rovesci militari ha infatti ordinato bombardamenti aerei e attacchi con droni sui villaggi e le città del Tigray con la conseguenza di aumentare sofferenze e morti fra la popolazione civile. Popolazione duramente provata da un anno di conflitto come dimostrano i 2 milioni e mezzo di profughi e gli oltre 400 mila cittadini colpiti, oltre che dalla guerra, anche da una dura carestia. Cittadini cui le Nazioni Unite e le organizzazioni umanitarie non hanno fino ad ora potuto fare arrivare i necessari aiuti. In questa difficile situazione diversi Paesi si sono mossi per chiedere la cessazione del conflitto e l’avvio di negoziati. In realtà, a dare segnali concreti di intervento sono soprattutto gli Stati Uniti che hanno minacciato di sospendere il trattato commerciale preferenziale con Adis Abeba, decisivo per l’esportazione dei manufatti di quel Paese, e che hanno inviato il proprio rappresentante per l’Africa da Ahmed per portarlo a più miti consigli.

Dell’UE, a parte l’auspicio di aprire negoziati, non vi è traccia di iniziative concrete. Eppure l’Etiopia, come il resto dell’Africa, dovrebbe essere una priorità per l’Europa.
Un’ultima osservazione sui meccanismi di attribuzione dei premi Nobel per la pace. L’assegnazione di questo prestigioso riconoscimento è stata deliberata a poco meno di un anno dall’insediamento al governo di Abij Ahmed. La motivazione era l’avvio di trattative di pace con la confinante Eritrea dopo anni di scaramucce al confine. Peccato che di quell’accordo non esista un testo ufficiale e che l’Eritrea sia rimasta una delle dittature più feroci dell’Africa. Sarebbe forse necessaria una maggiore prudenza da parte dei giurati di Oslo, magari accantonando la categoria degli uomini politici al potere che, al di là delle buone intenzioni, rispondono quasi sempre ad esigenze di realpolitik che poco hanno da spartire con la pace.

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